
mercoledì 4 febbraio 2009
Mons. Georg Ratzinger sulle accuse della Merkel al Papa: non ha bisogno delle mie difese ma la cancelliera ha ceduto alle pressioni

Revoca della scomunica ai lefebvriani. ll presidente della 'Pay the Way': non deve danneggiare il dialogo tra ebrei e cattolici

La cancelliera Merkel ritratta le affermazioni sul Papa: non mi sono immischiata negli interessi della Chiesa. La critica di mons. Mixa

Il vescovo di Augsburg in Baviera, Walter Mixa, ha criticato la cancelliera Angela Merkel. Il prelato ha parlato di ''errore diplomatico e politico'' della Merkel: nel comunicato diffuso oggi ha sottolineato come ''la posizione del Papa in tema di Olocausto e la sua solida simpatia per gli ebrei come i fratelli maggiori dei cristiani e' stata espressa sempre con chiarezza''. Per questo, afferma Mixa, ''il Santo Padre non ha bisogno di prendere ripetizioni dalla responsabile del governo tedesco'', dalla quale, ha detto, ''ci si attenderebbe una maggiore sensibilità in materie riguardanti la Chiesa Cattolica e il Papa''.
Il premier Zapatero incontra il card. Bertone a Madrid. E invita Benedetto XVI a Santiago di Compostela per l'Anno giubilare 2010

Nota della segreteria di Stato: il Papa non conosceva le posizioni di mons. Williamson. Il vescovo ritratti se vuole rientrare nella Chiesa

NOTA DELLA SEGRETERIA DI STATO
All'Udienza generale l'appello di Benedetto XVI per lo Sri Lanka: basta guerra, rispettate il diritto umanitario

Il Papa conclude il ciclo di catechesi su San Paolo: l'Apostolo è uno stimolo e una garanzia per consolidare l'identità cristiana

4 febbraio 2009, San Paolo (20) - il testo integrale della catechesi del Papa
Revoca della scomunica ai lefebvriani. Tradizionalisti, una pace che non significa resa

Nel conclave del 2005 la candidatura di Ratzinger si impose non solo per la stima universale di cui godeva la sua intelligenza teologica, ma anche perché era considerato l'uomo giusto per mettere sotto controllo i nuclei del lefebvrismo e l'ala più oltranzista della curia romana che lo appoggiava dietro le quinte. Nessuno come lui aveva la possibilità di riuscire là dove Wojtyla aveva fallito, cioè di chiudere lo scisma di Lefebvre e di sgombrare il campo dall'altra divisione storica, quella dello "scisma cinese" della Chiesa patriottica.
Su questo programma concordavano anche, a certe condizioni, i cardinali dell'ala riformista, convinti che senza disciplina non si potrebbe dare riforma. In quanto tedesco, Benedetto XVI apporta di suo a questa esigenza obiettiva di riconciliazione una speciale sensibilità per l'effetto durevole di uno scisma come quello luterano. Certamente è lontano dal ritenere che basti un decreto per medicare le ferite ed evitare danni ancora più gravi di quelli che esso pretenderebbe di sanare. Ricomporre formalmente le rotture non è sufficiente infatti ad assorbirle nei fatti: nell'equivoco sono caduti anche quegli adepti dello scisma che hanno interpretato l'atto di clemenza come un avallo dell'imperterrita verità della loro posizione antagonista.
La delicatezza di questa mossa, attesa da tempo, è tutta in una domanda: unità della Chiesa, sì, ma a quale prezzo? I Papi del post-Concilio, Paolo VI e Giovanni Paolo II, si erano incagliati su questo problema. Nel dar prova di pazienza smisurata con Marcel Lefebvre, avevano dovuto riconoscere che la pace non avrebbe avuto altra contropartita che il Concilio stesso. Temevano che la stessa "riconciliazione liturgica", il primo obiettivo dei lefebvristi, avrebbe avuto un esito destabilizzante per l'intero magistero conciliare. Lefebvre trattava pubblicamente Montini come "un Papa scismatico" e considerava il Vaticano II come una deviazione dal cammino della vera Tradizione della Chiesa. Il suo rifiuto mirava al cuore delle reali discontinuità operate dal Concilio nel suo approccio vivificante a una Tradizione dinamica: la dottrina della libertà religiosa, il dialogo con le altre religioni, il rifiuto dell'antisemitismo e del mito del "deicidio". Da "padre conciliare", Lefebvre nel 1964 era un avversario così irriducibile del progetto di dichiarazione sugli ebrei da costringere Paolo VI a rimuoverlo dalla speciale commissione mista incaricata di elaborarla per un voto che sarebbe stato quasi plebiscitario dell'assemblea.
Il vero ostacolo alla chiusura dello scisma era dunque costituito dal prolungato rifiuto dei dissidenti di accettare l'autorità del Concilio Vaticano II. Questa condizione è stata ribadita con la necessaria chiarezza anche da Benedetto XVI il 28 gennaio. Un conto è abrogare le pene canoniche inflitte con la scomunica ai quattro vescovi scismatici; altra cosa incardinarli come vescovi nella comunione della Chiesa universale, nella quale il pluralismo, se ammette espressioni diverse, ha naturalmente dei limiti. Il Papa ha gettato un ponte, ma lo scisma non si potrà chiudere se i ribelli non lo percorrono, dichiarando di accettare senza riserve l'intera ortodossia cattolica, di cui anche le decisioni del Vaticano II fanno parte integrante.
Il chiarimento pontificio ha permesso di evitare che la pace coi lefebvristi si trasformasse in una conferma dell'influenza dell'ala conservativa della Chiesa da tempo interessata a contenere l'impulso riformatore entro una lettura minimalista del Concilio e a contestarne la natura vincolante. Dato che il Cattolicesimo non può essere vissuto astraendo dal riferimento al Vaticano II, qualsiasi posizione ermeneutica, che ne esplori la continuità con il magistero precedente, non potrà spingersi d'ora in poi a sottovalutarne le conquiste innovative o a accusarne le discontinuità come "misinterpretazioni" dei testi che il Concilio ha votato, senza aprire il Portone di Bronzo al vento letale del relativismo e mettere a repentaglio in definitiva la stessa autorità pontificia.
Revoca della scomunica ai lefebvriani. Chi comanda (davvero) in Vaticano

I sussurri dei corridoi dei Sacri Palazzi ormai superano le alte mura di cinta. Le tempeste esterne cui è sottoposta sempre più spesso la Chiesa di Benedetto XVI rendono più chiaro un problema di gestione, di "governance debole", che in molti tra gli altri prelati giudicano sempre più evidente. Mentre negli ultimi anni di Giovanni Paolo II si avvertivano vuoti nella catena di comando, oggi il problema sembra opposto: ci sono troppe catene che s'intrecciano sotto il Sacro Soglio, creando talvolta una certa confusione che può sfociare in crisi esterne.
Il caso dei lefebvriani - che invece di sgonfiarsi sembra destinato a un'escalation - ne è l'emblema, e fa venire allo scoperto i critici. Se il cardinale delegato all'unità dei cristiani e ai rapporti con l'ebraismo Walter Kasper - che ratzingeriano organico non è mai stato ma è pur sempre un tedesco - denuncia la cattiva gestione da parte della Curia (e non certo la decisione del Papa) del caso del vescovo negazionista Williamson, allora c'è davvero un problema al di là della Porta Sant'Anna.
Teologi e canonisti alla guida della Chiesa
Ma la domanda allora è: chi, sotto Ratzinger, comanda in Vaticano? Bisogna partire da un dato: questo Pontificato ha per la prima volta da un secolo e mezzo un Papa e un segretario di Stato (il "primo ministro" che guida il Governo della Santa Sede) che non provengono dalla carriera diplomatica. Ratzinger è un teologo e il cardinale Tarcisio Bertone un canonista.
Ratzinger non ama la gestione e per quanto possibile la delega all'attivissimo Bertone, che da quando è stato nominato il 15 settembre 2006 al posto di Angelo Sodano ha promosso un vasto cambiamento ai vertici della Curia. La formazione del salesiano Bertone lo ha portato a dare spazio a chi come lui viene dal mondo dei canonisti: dall'arcivescovo (e futuro cardinale) Angelo Amato, alla guida della cause dei Santi, a un altro salesiano, il cardinale Raffaele Farina alla Biblioteca, fino al cardinale Agostino Vallini al posto di Camillo Ruini al Vicariato di Roma.
Il peso ridotto dei diplomatici
Insomma, i diplomatici hanno subìto uno scarto rispetto al passato e i nuovi "numeri due" della Segreteria, il sostituto Fernando Filoni e il "ministro" degli Esteri, Dominique Mamberti, pur essendo personaggi-chiave restano in ombra rispetto ai loro predecessori. Al livello inferiore i motori sono i monsignori Gabriele Caccia e Pier Parolin, i due sottosegretari che hanno in mano i principali dossier, abilissimi diplomatici. Quindi Bertone si avvale di tutte le esperienze - in particolare dentro la Segreteria di Stato vengono segnalati in crescita i monsignori Ettore Balestrero e Antonio Guido Filippazzi - ma ha un metodo decisionale che differisce dalle consuetudini dei predecessori. E sulla vicenda Williamson è stato notato il suo superiore e di certo abile distacco (oggi per esempio è in Spagna e nei giorni scorsi era in Messico). Così tutto è avvenuto a livelli decisionali immediatamente inferiori.
I retroscena della questione lefebvriana
Dopo il Motu Proprio del 2007 sulla cosiddetta Messa in latino, che avviò il riavvicinamento con i lefebvriani scomunicati - nel 1988 Ratzinger non fu d'accordo con la scomunica, spinta da Sodano e da Achille Silvestrini, allora ministro degli Esteri - voleva arrivare a una piena riconciliazione formale e voleva far coincidere l'evento con la giornata dell'unità dei cristiani. A spingere per una rapida decisione è stato soprattutto il cardinale colombiano Dario Castrillon Hoyos, dal 2006 a capo del'Ecclesia Dei, l'organismo creato da Wojtyla all'indomani della scomunica per cercare vie al perdono.
Castrillon - molto sensibile a organismi forti nel mondo ispano-americano come Opus Dei e Legionari di Cristo - ha così gestito in buona parte la stesura del decreto che poi è stato firmato - pare senza entusiasmo - da Giovanni Battista Re, capo del dicastero dei Vescovi, esponente di spicco della Segreteria di Stato dell'era di Giovanni Paolo II, e senza coinvolgere il capo dei Testi legislativi, l'arcivescovo Francesco Coccopalmerio, milanese di formazione martiniana. Un percorso, quindi, che ha visto non tutti concordi. Anzi. La vecchia guardia progressista era quantomeno cauta, visto che le posizioni dei lefebvriani erano ben note, sia riguardo al Concilio sia su altri fronti, a partire dal dialogo con gli ebrei. Poi l'incidente dell'intervista.
Qualcuno, magari della vecchia guardia wojtyliana, vicino agli ancora potenti Sodano e Ruini, ha teso una trappola? Difficile affermarlo. Da ieri circola l'indiscrezione di un dossier che gira dentro il Vaticano, in cui si afferma che la diffusione della sconcertante intervista che nega la Shoah sarebbe stata pilotata da ambienti (compresa la massoneria francese) che volevano mettere in difficoltà il Papa. Una fonte afferma che nessuno dentro le mura vaticane sapeva dell'intervista, custodita da qualche organizzazione ebraica che (legittimamente) monitora tutto ciò che esce sulla stampa mondiale e che l'ha tirata fuori alla vigilia del decreto.
Una governance da riequilibrare
In ogni caso, quella di Williamson è la prova di una governance che per qualcuno deve essere riequilibrata, come rileva anche Famiglia Cristiana nell'ultimo editoriale. Un altro caso portato ad esempio è quello della mancata visita del Papa all'Università La Sapienza di un anno fa. In quella vicenda fu chiaro che dentro il Vaticano c'erano due anime: chi voleva gestire la trattativa senza strappi e chi, nella destra ecclesiale, spingeva per addossare al Governo di centro-sinistra la responsabilità delle proteste. Sappiamo com'è andata.
L'altro incidente fu il discorso di Ratisbona il 12 settembre 2006: forse complice il cambio della guardia alla Segreteria di Stato (ma pare che Sodano avesse avvertito dei rischi) il discorso di Ratzinger fu interpretato come un attacco all'Islam, provocando problemi con il mondo musulmano che ancora oggi via via riaffiorano. Il Papa voleva dire l'opposto di quello che fu percepito al momento, ma si sa che nella società della comunicazione, tutti - e soprattutto questo vale per chi svolge un servizio per sua stessa definizione "universale" - sanno che un discorso vale per come viene recepito e non per le intenzioni di chi lo ha pronunciato.
Conservatori contro progressisti
Sulla sfondo resta dentro la Chiesa tutta, al di là delle appartenenze ai filoni canonista e diplomatico, la storica dicotomia tra progressisti e conservatori con al centro il dibatto sul Concilio, quanto mai vivo dopo il caso dei lefebvriani, e le varie questioni sul tappeto, dagli immigrati alle moschee. I progressisti innalzano sempre il vessillo del cardinale Carlo Maria Martini - eredità oggi raccolta da Dionigi Tettamanzi - mentre quelli che vengono indicati come esponenti della "linea dura" sono qua e là identificati in gruppi sparsi tra Curia (da poco è stato nominato al Culto divino lo spagnolo Antonio Canizares, detto anche il "piccolo Ratzinger") ed episcopato, come il bolognese Carlo Caffarra o il torinese Severino Poletto.
Revoca della scomunica ai lefebvriani. Disastro doppio in Vaticano: di governo e di comunicazione

www.chiesa
A distanza di qualche giorno dai fatti, la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani si manifesta sempre più in Vaticano come un doppio disastro, di governo e di comunicazione.
Nel disastro, Papa Benedetto XVI si è trovato a essere il più esposto, praticamente solo.
In curia e fuori sono numerosi quelli che caricano sul Papa la colpa di tutto. In effetti è stata sua, di Papa Joseph Ratzinger, la decisione di offrire ai vescovi lefebvriani un gesto di benevolenza. La revoca della scomunica faceva seguito ad altri precedenti gesti di apertura, anch'essi personalmente voluti dal Papa, l'ultimo dei quali era stato il Motu Proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007, con la liberalizzazione del rito antico della Messa.
Come già in precedenza, anche questa volta Benedetto XVI non aveva preteso niente in cambio, preventivamente, dai lefebvriani. Le sue sono state finora aperture unilaterali. I critici del Papa hanno fatto leva su questo per accusarlo di ingenuità, o di cedimento, o addirittura di voler riportare la Chiesa a prima del Concilio Vaticano II.
In realtà, l'intenzione di Benedetto XVI è stata spiegata da lui con assoluta chiarezza in uno dei discorsi capitali del suo Pontificato, quello letto alla curia romana il 22 dicembre 2005. In quel discorso, Papa Ratzinger sostenne che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con la tradizione anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, ad esempio quando riconosceva la libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.
Con quel discorso Benedetto XVI parlava all'intero corpo cattolico. Ma nello stesso tempo anche ai lefebvriani, ai quali indicava la strada maestra per sanare lo scisma e ritornare all'unità con la Chiesa sui punti da loro più contestati: non solo la libertà religiosa, ma anche la liturgia, l'ecumenismo, il rapporto con l'ebraismo e le altre religioni. Su tutti questi punti, dopo il Concilio Vaticano II i lefebvriani si erano progressivamente separati dalla Chiesa Cattolica. Nel 1975 la Fraternità Sacerdotale San Pio X - la struttura nella quale si erano organizzati - non ubbidì all'ordine di scioglimento e si costituì in Chiesa parallela, con propri vescovi, sacerdoti, seminari. Nel 1976 il fondatore, l'arcivescovo Marcel Lefebvre, fu sospeso "a divinis". Nel 1988 la scomunica a Lefebvre e a quattro nuovi vescovi da lui ordinati senza l'autorizzazione del Papa - a loro volta sospesi "a divinis" - fu l'atto culminante di uno scisma già in corso da anni.
La revoca di questa scomunica non ha dunque affatto sanato lo scisma tra Roma e i lefebvriani, così come la revoca delle scomuniche tra Roma e il Patriarcato di Costantinopoli - decisa il 7 dicembre 1965 da Paolo VI e Atenagora - non ha affatto segnato il ritorno all'unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse d'Oriente. Nell'uno e nell'altro caso, la cessata scomunica ha inteso solo valere come un primo passo per ricomporre lo scisma, che resta.
A conferma di questo c'è una nota del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, emessa il 24 agosto 1996. In essa si legge che la scomunica scattata nel 1988 contro i vescovi lefebvriani "ha costituito la consumazione di una progressiva situazione globale d’indole scismatica" e che "finché non vi siano cambiamenti che conducano al ristabilimento della necessaria 'communio hierarchica', tutto il movimento lefebvriano è da ritenersi scismatico".
Questo era lo stato dei fatti, su cui è intervenuta la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Ma di tutto questo poco o nulla si leggeva e capiva, nel decreto diramato il 24 gennaio dalla Santa Sede. Nella "vulgata" diffusa dai media, con questo decreto la Chiesa di Roma semplicemente sembrava accogliere nel proprio seno i lefebvriani.
Ad aggravare l'incomprensione ci fu poi la clamorosa risonanza di un'intervista di uno dei quattro vescovi graziati, l'inglese Richard Williamson, nella quale egli sosteneva tesi negazioniste riguardo alla Shoah.
Ad aggravare l'incomprensione ci fu poi la clamorosa risonanza di un'intervista di uno dei quattro vescovi graziati, l'inglese Richard Williamson, nella quale egli sosteneva tesi negazioniste riguardo alla Shoah.
L'intervista era stata registrata da una tv svedese il 1 novembre 2008, ma fu diffusa il 21 gennaio, il giorno stesso in cui in Vaticano fu firmato il decreto di revoca della scomunica a Williamson e agli altri tre vescovi lefebvriani.
Nei media di tutto il mondo la notizia divenne quindi la seguente: il Papa assolve dalla scomunica e accoglie nella Chiesa un vescovo negazionista.
La tempesta che ne derivò fu tremenda. Dal mondo ebraico, ma non solo, non si contarono le proteste. Dal Vaticano si corse ai ripari affannosamente in più modi, con dichiarazioni ed articoli su L'Osservatore Romano. La polemica si attenuò solo dopo che intervenne Benedetto XVI in persona, con due chiarimenti letti al termine dell'udienza generale di mercoledì 28 gennaio: uno sui lefebvriani e sul loro dovere di "riconoscimento del Magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II", l'altro sulla Shoah.
La domanda sorge naturale: tutto ciò era proprio inevitabile, una volta posta la decisione del Papa di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani? Oppure il disastro è stato prodotto da errori ed omissioni degli uomini che dovrebbero mettere in opera le decisioni del Papa?
I fatti propendono per questa seconda ipotesi. Il decreto di revoca della scomunica porta la firma del card. Giovanni Battista Re, Prefetto della Congregazione per i vescovi. Un altro cardinale, Darío Castrillón Hoyos, è il presidente della pontificia commissione "Ecclesia Dei" che si occupa fin dalla sua costituzione, nel 1988, dei seguaci di Lefebvre. Sia l'uno che l'altro hanno dichiarato di essere stati colti di sorpresa, a cose fatte, dall'intervista del vescovo Williamson e di non aver mai saputo che egli fosse un negatore della Shoah.
Ma un approfondito esame del profilo personale di Williamson e degli altri tre vescovi non era il primo dovere d'ufficio dei due cardinali? Che non l'abbiano fatto appare inescusabile. Tale esame non era neppure difficile. Williamson non ha mai nascosto la sua avversione al giudaismo. Ha difeso in pubblico l'autenticità dei "Protocolli dei Savi di Sion". Nel 1989, in Canada, rischiò d'essere processato per aver esaltato i libri di un autore negazionista, Ernst Zundel. Dopo l'11 settembre 2001 aderì a tesi complottistiche per spiegare l'abbattimento delle Torri Gemelle. Bastava un clic su Google per rintracciare questi precedenti.
Un'altra grave falla ha riguardato il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. La ricomposizione dello scisma con i lefebvriani fa parte, logicamente, delle sue competenze, che comprendono anche i rapporti tra la Chiesa e l'ebraismo. Ma il cardinale che lo presiede, Walter Kasper, ha detto di essere stato tenuto fuori dalla delibera: cosa tanto più sorprendente in quanto l'emissione del decreto di revoca della scomunica è avvenuta durante l'annuale Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani e a pochi giorni dalla Giornata Mondiale di Memoria della Shoah.
Non solo. È apparso del tutto carente anche il lancio mediatico della decisione. La sala stampa del Vaticano si è limitata, sabato 24 gennaio, a distribuire il testo del decreto, nonostante la notizia fosse già trapelata da alcuni giorni e su di essa già stesse montando la polemica accesa dalle dichiarazioni negazioniste di Williamson.
C'è un confronto che illumina. Il giorno precedente, 23 gennaio, la stessa sala stampa aveva organizzato con grande pompa il lancio del canale vaticano su YouTube. E pochi giorni dopo, il 29 gennaio, avrebbe lanciato, sempre con grande dispiegamento di persone e di mezzi, un convegno internazionale su Galileo Galilei in programma per la fine di maggio. In entrambi i casi l'obiettivo era di trasmettere ai media il senso autentico dell'una e dell'altra iniziativa.
Niente di simile, invece, è stato fatto per il decreto riguardante i vescovi lefebvriani. Eppure gli elementi per un suo lancio adeguato c'erano tutti. E anche i tempi erano quelli giusti. Era in corso la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; era imminente la Giornata della Memoria della Shoah; in Italia c'era stata pochi giorni prima, il 17 gennaio, la Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei. Il card. Kasper, il maggior responsabile della curia su entrambi i versanti, sarebbe stato la persona ideale per presentare il decreto, inquadrarlo nella persistente situazione di scisma, indicare le finalità della revoca della scomunica, ricapitolare i punti sui quali i lefebvriani venivano chiamati a riconsiderare le loro posizioni, dall'accettazione piena del Concilio Vaticano II al superamento del loro antigiudaismo. Quanto a Williamson, non sarebbe stato difficile circoscrivere il suo caso: restando fermo sulle sue aberranti tesi negazioniste, si sottraeva egli stesso al gesto di "misericordia" del Papa.
Ebbene, se niente di questo è avvenuto, non è per colpa della sala stampa vaticana e del suo direttore, il gesuita Federico Lombardi, ma degli uffici di curia dai quali ricevono i comandi.
Uffici di curia che si riassumono nella segreteria di stato.
Da Paolo VI in poi, la segreteria di stato è l'apice e il motore della macchina curiale. Ha l'accesso diretto al Papa e governa la messa in opera di ogni sua decisione. La affida agli uffici competenti e ne coordina il lavoro.
Da Paolo VI in poi, la segreteria di stato è l'apice e il motore della macchina curiale. Ha l'accesso diretto al Papa e governa la messa in opera di ogni sua decisione. La affida agli uffici competenti e ne coordina il lavoro.
Ebbene, nell'intera vicenda della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, il segretario di stato, card. Tarcisio Bertone, pur di solito attivissimo e loquace, si è distinto per la sua assenza.
Il suo primo commento pubblico sulla questione è arrivato il 28 gennaio, in margine a un convegno romano nel quale era conferenziere.
Ma più che le parole, sono mancati da parte sua gli atti adeguati alla gravità della questione. Prima, durante e dopo l'emissione del decreto.
Benedetto XVI è stato lasciato praticamente solo e la curia è stata abbandonata al disordine.
Che Papa Ratzinger abbia rinunciato a riformare la curia è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma si ipotizzava che egli avesse sopperito a questa sua non scelta affidando la guida degli uffici a un segretario di stato dinamico e di polso, Bertone.
Oggi anche questa ipotesi si rivela in difetto. Con Bertone la curia appare più disordinata che prima, forse anche perché egli non vi si è mai completamente dedicato, per curarne le disfunzioni. Bertone svolge la gran parte della sua attività non dentro le mura vaticane ma fuori, in un incessante giro di conferenze, di celebrazioni, di inaugurazioni. I suoi viaggi all'estero sono frequenti e densi di incontri e di discorsi come quelli di un Giovanni Paolo II in piena salute: dal 15 al 19 gennaio è stato in Messico e in questi giorni è in visita in Spagna. Di conseguenza, il lavoro che gli uffici della segreteria di stato dedicano a queste sue attività esterne è tutto lavoro in meno per il Papa. O talvolta è un inutile raddoppio: ad esempio quando Bertone tiene un discorso sullo stesso tema e allo stesso uditorio al quale poco dopo parlerà il Papa, con i giornalisti puntualmente in caccia delle differenze tra i due.
La personale devozione di Bertone a Benedetto XVI è al di fuori di ogni dubbio. Non così quella di altri ufficiali di curia, che continuano ad avere campo libero. Può darsi che alcuni avversino consapevolmente questo Pontificato. Di certo, i più semplicemente non lo capiscono, non ne sono all'altezza.
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