mercoledì 29 giugno 2011

Il Papa: Signore, aiutami ad essere una cosa sola con la tua volontà, vivere la vita insieme con Te per gli altri, diventare sempre di più Tuo amico!

'''Non vi chiamo più servi ma amici'. A sessant'anni dal giorno della mia ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande arcivescovo, il cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po' debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della della cerimonia di Ordinazione'': con queste parole il Papa ha iniziato l'omelia della Messa nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo. “Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo – ha aggiunto il Pontefice -, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati”. “'Non più servi ma amici': io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola 'cerimoniale', ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura". Tuttavia, “ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati”. Non solo: “Egli mi affida le parole della consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me”. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà”. '''Non più servi ma amici' - ha poi detto il Pontefice -: in questa parola è racchiuso l'intero programma di una vita sacerdotale''. Ma cosa è veramente l’amicizia? “L’amicizia – ha osservato il Santo Padre - è una comunione del pensare e del volere”.
''L'amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch'io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell'incontro della preghiera, nella comunione dei Santi - ha detto il Papa - nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso''. In realtà, “l’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il ‘sì’ dell’adesione alla sua”. C’è poi un terzo elemento: “Egli dà la sua vita per noi. Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!”. La parola di Gesù sull’amicizia “sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli”. Il primo “è quello di mettersi in cammino, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri”. Dunque, “il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio”. “Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo”. Ma Gesù chiede anche di portare frutto, “un frutto che rimanga!”. Ma qual è il frutto che rimane? “Ebbene – ha affermato Benedetto XVI -, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perchè possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perchè maturi un vino pregiato - è stata l'immagine usata dal Pontefice - c'è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione''.
Il Papa ha domandato: “Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta”. Un’ulteriore domanda: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? “Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi”, ha sostenuto il Pontefice, per il quale “l’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico”. Solo così, “nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce”. Dopo aver dedicato questa riflessione al ricordo del suo 60° di sacerdozio, il Santo Padre ha rivolto un pensiero agli arcivescovi metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli cui oggi è stato imposto il pallio.
"Questo - ha sottolineato il Papa - può ricordarci innanzitutto il 'giogo dolce' di Cristo che ci viene posto sulle spalle. Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò è un 'giogo dolce', ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell'amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Il pallio - ha inoltre ricordato il Papa - viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di Sant'Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l'umanità, si era smarrito. Ci ricorda Colui che ha preso l'agnello, l'umanità - me - sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro" . E "infine - ha concluso il Papa - il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori. Significa che noi dobbiamo essere Pastori per l'unità e nell'unità e che solo nell'unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo. In quest'ora, dopo sessant'anni di ministero sacerdotale, mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi - a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa - una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell'esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un'ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l'amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato".

Asca, SIR, TMNews

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO - il testo integrale dell'omelia del Papa