di Carlo Maria Martini
La mia prima conoscenza con l'opera del card. Joseph Ratzinger rimonta alla fine degli anni Sessanta. Erano anni di grandi turbolenze spirituali e culturali. Mi trovavo in ritiro in una casa ospitale nella Selva Nera e cercavo di preparare una conversazione che avrei dovuto tenere in Italia a un gruppo di sacerdoti. Mi aspettavo, come era d'uso a quel tempo, molte domande, contestazioni, difficoltà. Ero alla ricerca di un qualche libro che mi aiutasse a mettere giù le idee in modo chiaro e sereno. Fu così che ebbi tra le mani il testo tedesco della "Introduzione al Cristianesimo" di Joseph Ratzinger, uscita poco prima (1968). Ricordo ancora oggi il gusto con cui lessi quelle pagine. Mi aiutavano a chiarire le idee, a pacificare il cuore, a uscire dalla confusione. Sentivo che venivano da qualcuno che aveva a lungo meditato sul messaggio cristiano e lo esponeva con sapienza e dolcezza. Conservo ancora oggi quegli appunti. Fu in particolare da quella lettura che ritenni il tema del "forse è vero" con cui si interroga l'incredulo, e che mi guidò poi per realizzare la "Cattedra dei non credenti". In quel decennio avevo avuto un'altra occasione di incontrarmi, questa volta in maniera più personale, con l'allora prof. Ratzinger. Mi trovavo a Münster per una ricerca sulla critica testuale, e partecipavo saltuariamente ad alcune altre lezioni nell'Università. Fu così che, alla vigilia della festa del Corpus Domini, andai ad ascoltare una lezione del prof. Ratzinger. Aveva proprio come tema l'Eucaristia e l'adorazione eucaristica, e fece dei riferimenti alla grande processione cittadina che si sarebbe tenuta il giorno seguente. Mi colpì la pertinenza, la delicatezza, la chiarezza e il coraggio delle sue asserzioni. Avevo davanti a me un grande cattedratico che non temeva di fare dei riferimenti alla vita concreta e agli eventi di una Chiesa locale. Un terzo momento di conoscenza più diretta fu durante il Sinodo sulla famiglia del 1980, di cui il card. Ratzinger fu il relatore. Per un mese intero potei osservarlo nell'Aula sinodale, vedere con quanta attenzione ascoltava i discorsi che si facevano e con quanta pertinenza interveniva e rispondeva. Mi colpì il fatto che, in un momento particolarmente delicato dei lavori sinodali, confessò con semplicità che, avendo lavorato fin tardi nella notte seguente, non era riuscito di fatto a mettere insieme il testo che ci si aspettava, e così chiedeva di rimandare il suo intervento. Non sapevo se ammirare di più la sua saggezza o la sua sincerità. Era stato molto prudente nel non affrettare le conclusioni su un problema difficile e insieme aveva avuto il coraggio di riconoscere che il gruppo di lavoro non era ancora riuscito a terminare il suo compito. Quando egli divenne prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ebbi più frequenti occasioni sia di leggere i suoi scritti sia di frequentarlo nelle sessioni ordinarie della Congregazione. Potei così ammirare maggiormente questo mio confratello nel l'episcopato che svolge un servizio dottrinale e pastorale di grande rilievo accanto al Successore di Pietro. Egli è impegnato a servire il ministero di unità nella Chiesa universale in campo dottrinale. Un compito difficile, perché occorre da una parte accettare e accogliere la molteplicità dei contributi in campo dottrinale che pervengono dalle diverse aree del pensiero e della cultura: non si tratta infatti di ricondurre tutto a un pensiero uniforme, ma di valorizzare le diversità. Dal l'altra occorre difendere la fede dalle sue contraffazioni e mettere in guardia di fronte ai pericoli. Si tratta di un compito arduo e difficile, a cui si può rispondere solo con la riflessione, la preghiera, la pazienza e l'ascolto. Bisogna anche accettare di dare tempo al tempo. Vi sono cose poco chiare che si chiariranno, vi sono intenzioni recondite che verranno svelate. La Chiesa confida nella forza dello Spirito Santo che sorregge i pastori e guida il senso di fede dei fedeli. Il card. Ratzinger ha portato a esecuzione, come prefetto, il cambiamento intercorso nel compito della Congregazione per la Dottrina della Fede, da un ruolo meramente difensivo a un ruolo più propositivo, voluto dalle norme di Paolo VI del 1965. Ci si trova così di fronte a grandi sfide: come articolare pluralismo e unità nella fede? Come garantire la promozione dell'inculturazione del messaggio e al tempo stesso la comunione e la comunicazione fra i linguaggi in cui esso si esprime? Qual è il confine fra le esigenze della custodia del "depositum" e quelle dell'incoraggiamento e della promozione, finalizzata a rendere l'annuncio percepibile nei diversi orizzonti ermeneutici? Come aiutare i teologi senza dar loro l'impressione di sentirsi sotto tutela o censura? Mi sembra che la collocazione del card. Joseph Ratzinger di fronte al problema di questa nostra svolta epocale dipenda anzitutto dalla sua fede e dalla sua rettitudine, in secondo luogo dalla sua perizia teologica e dalla sua straordinaria capacità dialettica e infine anche, come per ciascuno di noi, dalla sua biografia. Egli ha sperimentato, nelle università tedesche degli anni Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta, le conseguenze di atteggiamenti troppo disinvolti e facili, in particolare degli studenti, verso le ricchezze della tradizione. Ha sentito personalmente la durezza di una contestazione che partiva da premesse anche valide, come la riconduzione del cristianesimo alla sua primitiva semplicità e povertà e la preoccupazione per la giustizia, ma rischiava di lasciarsi irretire da una parte dalla politica e dall'altra da un oblio e quasi da un risentimento verso il cammino della grande tradizione e verso la sua saggezza. Sono le preoccupazioni che ho letto con interesse e con attenzione critica soprattutto nei suoi libri, diciamo così, "di battaglia" o "di missione", derivanti da prediche o da interviste, dove esprime con calore le sue convinzioni al di là dei complicati rivestimenti del linguaggio scientifico. Mi riferisco in particolare al notissimo libro "Rapporto sulla fede" uscito nella prima metà degli anni Ottanta. Ricordo bene che ebbi occasione di rifletterci in particolare durante un viaggio in Africa, ripensando ai diversi modi di dire il Vangelo nelle diverse culture e riflettendo, nel quadro di un corso di esercizi spirituali che predicavo ai missionari, sui modi di parlare di Dio oggi, confrontati col linguaggio parabolico di Gesù. Il tema della diversità dei linguaggi e del loro rapporto reciproco attraversa infatti tutta la storia della Chiesa e richiede una continua attenzione per valutare, nei casi difficili, la continuità dell'unica tradizione.Il cammino della Chiesa lungo i secoli è sempre stato percorso da fremiti dottrinali, da convulsioni e insieme da aperture feconde, da slanci e da orizzonti nuovi. Ciascuno di noi cerca di capire e di discernere per distinguere il vero dal falso, l'oro dalle scorie, e di servire così la verità al meglio delle proprie forze e della propria intelligenza, affidandosi infine al mistero di Dio che è sempre più grande del nostro cuore e della nostra capacità di esprimerlo. In questo contesto, la passione per la verità che Joseph Ratzinger ha testimoniato coerentemente in tutti questi anni, va intesa come risposta al "debolismo" della post-modernità. È significativa la stima di cui Joseph Ratzinger gode anche fra uomini di cultura non credenti. Nello stesso tempo non ci si può aspettare che un'opera così delicata riceva facilmente il plauso di tutti né che vengano evitati casi dolorosi. Vi sono sempre stati casi difficili nella storia della Chiesa, e talora il senno di poi ha mostrato che forse si sarebbe potuto procedere in altro modo. Ma il senno di poi è dato ai posteri, mentre ai contemporanei si richiede di agire ciascuno nel massimo della buona coscienza e della competenza. In queste cose Joseph Ratzinger ci è di modello e di stimolo.
Il Sole 24 Ore