Trentatré anni dopo la sua morte, avvenuta nella solitudine di un’afosa estate a Castel Gandolfo, la figura di Paolo VI (nella foto con l'allora card. Ratzinger), al secolo Giovanni Battista Montini, appare lontana, sconosciuta alle nuove generazioni, quelle che sono cresciute con Giovanni Paolo II. E bisogna ammettere che non hanno certo giovato al grande Pontefice bresciano taluni gelosissimi custodi della memoria, i quali, sentendosi gli unici autorizzati a tramandarne l’insegnamento, hanno finito più o meno inconsapevolmente per rendere elitario finanche il ricordo. Certo, Paolo VI è una figura complessa, che ha tenuto la barra a dritta guidando la Chiesa cattolica in anni difficili: eletto dopo la prima sessione del Concilio aperto dal suo predecessore Giovanni XXIII, si è trovato a doverlo condurre in porto tra tante difficoltà ed è riuscito nel miracolo di concluderlo avendo i documenti votati praticamente all’unanimità. Ha dovuto poi gestire la fase ardua dell’applicazione delle riforme conciliari, che ha coinciso con la crisi del Sessantotto e con una contestazione corrosiva anche all’interno della Chiesa, dove in tanti, invece di applicare la lettera del Vaticano II, in nome dello "spirito del Concilio", si volevano spingere oltre i suoi documenti mettendo in discussione tutto e tutti compresi i fondamenti stessi della fede. In questa fase, Papa Montini è stato un testimone sofferente e al contempo fermo, che con interventi ed encicliche ha ribadito ciò che la Chiesa aveva sempre creduto e continuava a credere. E al contempo non ha mai fatto passi indietro rispetto alla via segnata dal Concilio. Anche per questo Paolo VI si è trovato ad essere criticato da destra e da sinistra. Certo mondo tradizionalista non gli ha mai perdonato la riforma liturgica, le aperture ecumeniche, il dialogo con le religioni. Mentre, dall’altra parte, certo mondo progressista, anche sulla base del mito costruito sulla figura di Papa Giovanni, ha considerato Montini come il Papa che ha "frenato" la riforma della Chiesa. Leggendo il Magistero di Paolo VI, i suoi discorsi, i suoi interventi, il suo epistolario, ci si imbatte in un testimone straordinario, che già dagli anni dell’episcopato milanese, quando ancora la Chiesa in Italia dava l’impressione di essere fenomeno radicatissimo a livello popolare, come testimoniavano certe adunate oceaniche convocate a Roma, si era reso conto che alcuni mondi iniziavano ad essere impermeabili all’annuncio evangelico. Non di per sé avversari o nemici dichiarati. Ma indifferenti. Erano i mondi della finanza milanese, della moda, di certa cultura e anche del mondo operaio, che a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con la grande immigrazione, aveva trasformato le periferie della metropoli milanese. Non si può comprendere Paolo VI se non si parte dall’ansia evangelizzatrice che lo mosse soprattutto dopo l’impatto con Milano. Montini, che ha regnato dal giugno 1963 all’agosto 1978, è stato il Papa del dialogo. Ma non del dialogo fine a se stesso. Per Paolo VI, infatti, il dialogo è sempre stato un mezzo, non un fine. Un mezzo per far conoscere il Vangelo all’uomo moderno, un mezzo per essere più vicini alle angosce dei contemporanei. Ha mostrato il volto di una Chiesa che propone e non impone, che sa essere vicina a chi soffre, che considera il mondo come "un campo di messe e non come un abisso di perdizione", parole di don Battista Montini. Vittima di due interpretazioni opposte ed entrambe negative, Paolo VI è stato abbandonato dai suoi stessi amici, sottoposto agli attacchi più duri, soprattutto in occasione della pubblicazione dell’ultima sua Enciclica, "Humanae vitae" (1968), dopo la quale, per un decennio, non volle più pubblicarne per non sottoporre documenti così autorevoli ad attacchi così feroci. Eppure bisognerebbe ricordare che la sofferenza e la fermezza di Paolo VI hanno permesso il pontificato itinerante di Giovanni Paolo II. Bisognerebbe ricordare che molti testi di Papa Montini, riletti ora, mostrano tutta la loro attualità e il loro carico di profezia. La conoscenza della sua figura e del suo pontificato è decisiva per comprendere quella che Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia romana per gli auguri del Natale 2005 ha definito ermeneutica della riforma nella continuità, cioè di quella chiave interpretativa del Concilio Vaticano II che legge l’evento più significativo per la Chiesa cattolica del Novecento nell’alveo della tradizione, senza nostalgie per il passato e senza ingiustificate fughe in avanti. Anche per questo vale la pena riscoprire Paolo VI, farlo conoscere alle giovani generazioni, raccontare la sua testimonianza, allargando l’orizzonte degli studi e della divulgazione, restituendo finalmente la sua figura a tutti. Papa Montini, del quale è in corso il processo di Beatificazione, non merita dunque di rimanere confinato nel recinto elitario creato da coloro che si sono attribuiti il compito di gestirne la memoria e che ben poco lo hanno fatto conoscere. C’è una ricchezza di Magistero e di esempio che risulta attualissima e che aiuta a comprendere la situazione della Chiesa oggi e l’insegnamento dei successori di Montini, a cominciare da quello di Benedetto XVI, che Paolo VI volle nominare, appena cinquantenne, arcivescovo di Monaco creandolo subito cardinale.
Andrea Tornielli, Vatican Insider