Sono tanti i segnali che dicono che Joseph Ratzinger si è scrollato di dosso l’immagine di “panzerkardinal” che gli affibiarono quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio, per la vulgata un uomo di Curia conservatore e tanto potente da essere in grado di frenare le spinte di riforma messe in campo da Karol Wojtyla. Le cose non sono mai state esattamente così. L’ultimo segnale in ordine di tempo è un articolo uscito il 30 novembre scorso su L’Osservatore Romano. Evidentemente non senza il suo consenso, il giornale vaticano ha rilanciato un testo dell’attuale Pontefice datato 1998, arricchito da una nota che riporta le parole da lui dette al clero della diocesi di Aosta nel luglio 2005. In quel testo, pur ribadendo la giustezza del divieto di concedere l’Eucaristia ai divorziati risposati, apre un varco nuovo in merito, anche perché, sono parole di quel discorso, il problema, pur “difficile”, “deve essere approfondito”. Il varco che Benedetto XVI intravede si possa aprire è declinato in due punti, che il vaticanista Sandro Magister sintetizza così: “Il possibile ampliamento dei riconoscimenti di nullità di quei matrimoni che sono stati celebrati ‘senza fede’ da almeno uno dei coniugi; il possibile ricorso a una decisione ‘in foro interno’ di accedere alla comunione, da parte di un cattolico divorziato e risposato, qualora il mancato riconoscimento di nullità del suo precedente matrimonio contrasti con la sua ferma convinzione di coscienza che quel matrimonio era oggettivamente nullo”. Un’apertura, quest’ultima, che sembra contraddire il testo firmato da Joseph Ratzinger il 14 settembre 1994 nel quale si dice esplicitamente che senza la nullità del primo matrimonio contratto, l’Eucaristia non può essere data: la Chiesa “afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla comunione eucaristica”. L’argomento è delicato. Nei giorni scorsi, secondo quanto ha riportato sulla prestigiosa rivista cattolica nordamericana U.S. Catholic Paul Zulehner, teologo austriaco docente di Teologia pastorale all’Università di Vienna e amico del card. Christoph Schönborn, i vescovi del suo Paese dopo essersi riuniti “a porte chiuse” hanno inviato a Roma un documento che chiede una nuova pastorale per i divorziati risposati, norme più elastiche circa l’ammissione all’Eucaristia. I vescovi austriaci, infatti, come e probabilmente di più che in Italia, devono continuamente fare i conti con fedeli che partecipano attivamente alla vita delle parrocchie, spesso occupano i primi posti nei consigli pastorali, ma soffrono il divieto eucaristico. “I consigli pastorali delle parrocchie sono pieni di laici separati divorziati che spingono per accedere all’Eucaristia” dice Zulehner. A Il Foglio è padre Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia e direttore della rivista del medesimo dicastero, a lanciare un allarme che non è usuale sentire provenire da dentro le mura vaticane: “C’è molta preoccupazione. Ogni mese arrivano a Roma i vescovi delle diverse diocesi del mondo per le rispettive visite ad limina. Passano da Benedetto XVI e poi fanno le ‘stazioni’ nei vari ‘ministeri’ della Santa Sede. Quando arrivano da noi si dicono preoccupati per i tantissimi fedeli che, divorziati, si sono poi risposati, e che chiedono loro nuove risposte in merito al divieto del ricevimento dell’eucaristia. Soffrono e si sentono emarginati, anche perché molti di loro il divorzio l’hanno di fatto subìto. Dicono ai vescovi di vivere perennemente in attesa di un qualche cambiamento che però non arriva mai”. Il Papa ha in animo davvero di cambiare le regole? “A questa domanda non so rispondere. So però che fu lui ad Aosta a parlare di ‘grande sofferenza’. Disse che quando era prefetto della Dottrina della Fede aveva invitato diverse Conferenze Episcopali e specialisti a studiare il problema. Disse che in merito alla nullità del matrimonio celebrato senza fede era possibilista ma che poi ‘dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito’”. La richiesta di rivedere il divieto oggi non è, come in molti pensano, a esclusivo appannaggio dei cosiddetti “cattolici del dissenso”, le anime insomma più liberal della Chiesa. E’ vero, soprattutto nei Paesi nordeuropei, dove forte è la presenza del protestantesimo, sono i movimenti legati ai gruppi "Noi siamo Chiesa" a inserire nella propria piattaforma di riforme anche la questione dei divorziati risposati. Ma, oggi, sono anche alcuni settori “ortodossi” della comunione cattolica a chiedere ripensamenti almeno a livello teologico. Perché, dicono, “i varchi ci sono, basta aprirli”. Sotto il Pontificato di Benedeto XVI il dibattito è stato serrato, per molti più serrato di quanto non avvenne nei difficili anni del post Concilio e poi negli anni wojtyliani. Dopo le parole del Papa al clero aostano, ad esempio, è stata la facoltà telogica di Milano a mettere per iscritto una sua proposta. Su Teologia, la rivista della facoltà, Alberto Bonandi ha proposto una nuova “via” per ammettere alla comunione, a determinate condizioni, i cattolici divorziati risposati. Prete della diocesi di Mantova, docente di Morale fondamentale e teologo di rango, Bonandi, sostiene che è possibile presupporre sia la permanente validità del precedente matrimonio, sia la continuità piena della seconda convivenza, inclusi i rapporti sessuali. Ancora oggi, infatti, può accedere alla comunione soltanto chi, pur continuando a convivere con una persona diversa da quella validamente sposata, rinuncia ai rapporti sessuali. Secondo Bonandi il punto debole dell’attuale normativa risiede proprio qui, laddove essa impone, per l’ammissione alla comunione, la rinuncia ai rapporti sessuali tra i due conviventi, pur consentendo tra essi la coabitazione, il rapporto affettivo, il mutuo sostegno, la cura dei figli. Con questo, ha detto Bonandi, “sembra che la dottrina cattolica finisca per riconoscere la liceità, in una seconda relazione, di molti aspetti che caratterizzano il matrimonio, esclusi solo i rapporti sessuali”. Ma ciò sembra contraddire l’insegnamento della Chiesa sull’unità dei “fini” del matrimonio, quello unitivo e quello procreativo: “Il primo dei quali sarebbe lecito e anzi doveroso da perseguire anche nella convivenza dopo un matrimonio fallito, mentre l’altro no”. “Coerenza vorrebbe” invece “che si dichiarasse illecita la seconda relazione di coppia nella sua concreta totalità di affetto, coabitazione, relazioni sessuali, generazione ed educazione dei figli, e dunque che il semplice status di conviventi comunque impedisse, finché dura, l’accesso ai sacramenti. Oppure che si cercasse un’altra via…”. La proposta Bonandi ha creato dibattito non solo a Roma ma anche nella stessa prestigiosa facoltà teologica lombarda. Tanto che, qualche tempo dopo, è stata ancora Teologia a tornare sul tema, correggendo però di molto il tiro. Il teologo morale Marco Doldi, sacerdote di Genova e preside della locale sezione della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, ha sostanzialmente corretto Bonandi dicendo che i divorziati risposati possono accedere alla comunione a patto che rinuncino ai rapporti sessuali: “E’ importante che teologi e pastori d’anime aiutino a capire come la disciplina penitenziale che richiede la sospensione dei rapporti sessuali, se accettata, è ricca di conseguenze positive anche sulla vita della Chiesa… Aiuta tutti i fedeli ad avere un profondo rispetto per il sacramento dell’altare… E aiuta chi si sta preparando al matrimonio a vedere con più profondità la serietà dell’impegno matrimoniale e a cogliere il valore dell’indissolubilità”. Qualche mese dopo, fu invece il Vaticano a lanciare un segnale inequivocabile. Nel 2009, la Commissione Teologica Internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede rinnovò la propria squadra per volontà del Papa. Tra le new entry ci fu proprio Doldi: “La sua nomina conferma che la dottrina della Chiesa sulla comunione ai cattolici divorziati e risposati non cambia, a dispetto della richiesta del card. Carlo Maria Martini di ridiscutere la questione e di dedicare a essa addirittura un nuovo Concilio” ha scritto Magister. Benedetto XVI non ha parlato soltanto al clero di Aosta. Più volte ha tenuto discorsi al Tribunale della Rota romana. Qui ha chiesto di approfondire il caso del matrimonio celebrato senza fede ma insieme ha ribadito con forza la necessità di far sì che chi accede al sacramento del matrimonio lo faccia con piena coscienza di quanto si va a celebrare. Anche perché, dice a Il Foglio don Paolo Gentili, direttore dell’ufficio per la famiglia della Conferenza Episcopale italiana, “se indeboliamo la verità del sacramento del matrimonio cosa ci rimane?”. Don Paolo lavora sul campo. Recentemente ha seguito un gruppo di più di 150 separati, alcuni risposati. “Molti di loro” dice “conoscono meglio di chi vive il matrimonio il valore dell’Eucaristia”. E spesso accettano “con convinzione il divieto di accedervi”. Certo, “per molti il divieto è occasione di sofferenza. Ma il Papa è stato chiaro. Ha detto che sposarsi in chiesa è un diritto solo se si crede nella ‘verità’ del matrimonio, ossia di un atto per la realizzazione del ‘bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli, volto in definitiva alla santità della loro vita’. Discende da qui l’importanza della preparazione al matrimonio cristiano, anche per evitarne, successivamente, la nullità. Ciò a cui è giusto puntare è la celebrazione di matrimoni validi, che più matrimoni possibili vengano celebrati con piena coscienza”. Nel 1993 furono tre vescovi tedeschi, Karl Lehmann, Walter Kasper e Oskar Saier, a dirsi favorevoli alla possibilità di ammettere i divorziati risposati all’Eucaristia se essi, dopo un incontro con un prete, avessero ritenuto in coscienza di esservi autorizzati. Una possibilità che, nonostante si avvicini a quanto Joseph Ratzinger ha sostenuto nel 1998, solleva ancora oggi parecchi dubbi. La via proposta da Lehmann, Kasper e Saier venne sostanzialmente ripresa il 3 febbraio scorso quando un importante quotidiano tedesco, la Süddeutsche Zeitung, pubblicò un memorandum firmato da 143 teologi di lingua tedesca sotto il titolo “Chiesa 2011: una partenza necessaria”. Tra le varie richieste di riforma c’era anche quella relativa al divieto di ricevere la comunione da parte di divorziati risposati. In Vaticano è stata annotata, soprattutto dai settori più conservatori della Curia, la risposta puntuale scritta sul giornale cattolico tedesco dal professor Manfred Hauke, docente di Dogmatica nella facoltà teologica di Lugano. Hauke entra come un panzer sul tema della coscienza dicendo che la “libertà di coscienza” così come la intendono coloro che chiedono riforme, “separa evidentemente la coscienza del soggetto dalla verità oggettiva a cui la coscienza deve orientarsi. Non ha senso applicare la libertà di coscienza per approvare, ad esempio, delle coppie omosessuali e l’adulterio. Newman parlerebbe qui di un preteso ‘diritto alla caparbietà’ (vedi ‘Lettera al duca di Norfolk’)”. Secondo Hauke nel voler rivedere la dottrina sui divorziati risposati “non si vede solamente l’influsso di una più profonda conoscenza teologica, bensì una perdita di fede e di morale. Gli elementi fondamentali della dottrina apostolica vengono sacrificati a un pensiero che vuol essere aggiornato alla situazione attuale”. Da che parte sta il Papa? La risposta non è facile come sembra. Quando i teologi tedeschi firmarono il memorandum sostennero ad esempio che sul celibato sacerdotale Papa Ratzinger era d’accordo con loro perché nel 1970 aveva firmato un testo analogo. In realtà L’Osservatore Romano ha chiarito nei mesi scorsi che Joseph Ratzinger lavorò sì alla stesura del testo ma quando poi questi venne reso pubblico il suo nome non apparve tra gli estensori. Il dibattito in Germania è tornato a infiammarsi poche settimane fa, quando Benedetto XVI per la terza volta è tornato a nel suo Paese natale. Sul settimanale Focus è stato mons. Wilhelm Imkamp, consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, a criticare duramente quei settori della Chiesa tedesca che hanno palesemente appoggiato la richiesta di riforma avanzata dal presidente tedesco Christian Wulff. Nel discorso tenuto a Berlino davanti al Papa, Wulff ha espresso la speranza che la Chiesa Cattolica faccia un passo in direzione dei divorziati: “Milioni di persone che vivono in matrimoni interconfessionali e i milioni di cattolici risposati, ma anche molti altri gruppi aspettano un messaggio di liberazione”. “Se il cristiano cattolico Wulff usa il suo incarico politico e le possibilità che questo gli apre per discutere dei suoi problemi personali con e nella chiesa si può parlare senz’altro di un certo sconfinamento”, ha detto Imkamp. Il quale ha poi lamentato la presenza nella Chiesa tedesca di “troppi teologi brontoloni di professione, che nel complesso diffondono troppo poca gioia della fede” e ha ricordato che, se la Chiesa tedesca non resterà fedele al Vaticano, rischierà di trasformarsi in un “agente patogeno con un forte potenziale di contagio per la Chiesa universale”. Al di là delle reprimende, poche settimane prima della partenza del Papa per la Germania, è stata la rivista cattolica progressista francese Témoignage chrétien a spiegare in un lungo reportage che “non solo molti cattolici, ma anche molti vescovi (almeno in privato) dicono di essere a disagio relativamente alla posizione della Chiesa Cattolica riguardante le coppie di divorziati risposati”.“Non c’è da stupirsi” spiega la rivista. “Anche se soffocate e represse per un certo periodo, le vere questioni tornano a galla. Tanto più che il numero dei divorzi è aumentato: in Francia c’è il 50 per cento di divorzi rispetto ai matrimoni. I divorziati risposati sono sempre più numerosi nelle assemblee liturgiche e tra i responsabili ecclesiali. Molti preti non si ritengono autorizzati, in coscienza, a dire a proposito della comunione eucaristica: ‘Venite a tavola… ma non mangiate’. Non si tratta di banalizzare una situazione che comprende il suo peso di ferite e sofferenze, né di considerare tutto in funzione di quella realtà. Sono persone diverse, per la loro origine e la loro storia, ma anche per la prova coniugale che hanno dovuto vivere e che le segna, come nei casi di abbandono da parte del marito o della moglie. Spesso, il secondo matrimonio dà una stabilità e una maturazione che permettono di costruire un nuovo progetto nella fiducia. Nelle sue prescrizioni, la Chiesa non tiene conto di questa diversità”. Fu nel 1980 che il Sinodo dei vescovi sulla famiglia chiese, con 179 voti contro 20, “che ci si dedicasse a una nuova ricerca in merito, tenendo conto anche delle Chiese d’oriente, in modo da mettere meglio in evidenza la misericordia pastorale”. Questa richiesta, spiega Témoignage chrétien, “non ha prodotto alcun risultato” Nel 1992, in un documento intitolato “Les divorcés remariés”, la Commissione della famiglia dell’Episcopato francese propose: “Quando i divorziati risposati desiderano sinceramente avanzare sul cammino della santità, ma non possono accettare l’idea di separarsi, specialmente a causa dei figli, la Chiesa non potrebbe, senza imporre loro di vivere nella continenza, dare loro l’assoluzione e ammetterli alla comunione eucaristica? Non potrebbe, almeno, riconoscere loro il diritto di decidere in coscienza quello che devono fare? E ancora: accogliere, dar prova di misericordia, invitare al discernimento, situare questa difficoltà nella sua dimensione ecclesiale: non sarebbe più evangelico che sfoderare proibizioni?”. Il Papa ci sta pensando. Anche se per ora, il nuovo varco, è aperto soltanto sulla carta, non ancora insomma de facto.
Paolo Rodari, Il Foglio