I mass media sono, comprensibilmente, pieni delle notizie di fughe di documenti vaticani, da fonti forse uniche e forse no. E altre notizie, meno lampeggianti, ma certo più significative per la vita della Chiesa passano in secondo piano. Ma non sono slegate dalle prime, anzi: testimoniano, in un caso nell’altro, di una situazione che Benedetto XVI si adopera per raddrizzare, modificare, correggere. Ne abbiamo notate tre, nell’ultima settimana. Eccole. Un vescovo cattolico è stato ridotto allo stato laicale perché accusato di aver importato in Canada materiale pedopornografico. Raymond Lahey, già vescovo di Antagonish, non può più operare da presbitero, né presiedere a cerimonie religiose o amministrare i sacramenti. In tempi recenti è la prima volta che una pena del genere viene comminata a un presule alla fine di un processo canonico. A gennaio Lahey è stato condannato a 15 mesi di prigione perché all’aeroporto di Ottawa la polizia aveva trovato sul suo computer centinaia di fotografie pornografiche di adolescenti. Lahey è stato rilasciato sulla parola alla fine del processo. In un altro continente il vertice della Conferenza Episcopale è stato decapitato e sostituito. E’ la Repubblica Centroafricana, in cui Benedetto XVI, il 14 maggio scorso, ha nominato nuovi vescovi. A tre anni di distanza dall’inchiesta che ha portato alle dimissioni anticipate, nel maggio 2009 dell’arcivescovo Paulin Pomodino di Bangui, 54 anni, e del vescovo François-Xavier Yombandje, che si è ritirato all’età di 52 anni. Un’inchiesta condotta dall’allora arcivescovo, ora cardinale, Robert Sarah, ha trovato che Pomodino adottava “un’attitudine morale che non è sempre in conformità con il suo impegno a seguire Cristo in castità, povertà e obbedienza”. L’inchiesta ha anche scoperto che molti del clero locale avevano figli. Il 14 maggio scorso Benedetto XVI ha nominato padre Dieudonné Nzapalainga, 45 anni, come arcivescovo di Bangui. Il sacerdote aveva lavorato fino ad ora come Amministratore apostolico, e padre Nestor-Désiré Nongo-Aziagbia, 42 anni, superiore della Society of African Missions a Strasburgo, Francia, come vescovo di Bossangoa.
All’altro capo del mondo l’annuncio che un vescovo dissidente australiano, William Morris, è stato sostituito ha posto fine a una battaglia decennale fra il presule e il Vaticano. Il presule, a cui è stato chiesto di rassegnare le dimissioni, prima di giungere alla rimozione, aveva ed esprimeva idee contrastanti con quelle del magistero in tema di confessione, assoluzione generale dei peccati e ordinazione femminile. Quando gli è stato chiesto di venire a Roma, per discutere della situazione, il vescovo, che certamente sembra un po’ eccentrico (fra l’altro si veste da laico, e porta una cravatta con impresso il suo stemma episcopale) ha risposto di avere impegni pastorali che glielo impedivano. Un’inchiesta condotta dal vescovo americano Charles Chaput portò alla richiesta di dimissioni. A cui sembrava che Morris avesse acconsentito, dopo un incontro con il Papa in Australia; a cui però scrisse qualche tempo dopo dicendo che non se la sentiva di dimettersi. Nei giorni scorsi è stato nominato il suo successore: mons. Robert McGuckin, già presidente della Canon Law Society of Australia and New Zealand. Negli anni passati ci sono stati episodi analoghi, anch’essi più o meno ignorati dai media, se non da quelli locali. Dimissioni premature, concordate, uscite di scena discrete. Benedetto XVI macina lento, forse, ma macina fine. Tocca sensibilità, amicizie, legami e amor proprio; o frustra speranze e ambizioni, legittime forse, ma che dovrebbero cedere il passo di fronte a sentimenti ben diversi e più alti. Forse è anche per questo che assistiamo a fughe di documenti. Che purtroppo non sembrano poter provenire da chissà dove, ma da uffici molto vicini, forse sulla stessa Loggia, dell’appartamento del Pontefice. La risposta dei vertici della Segreteria di Stato fino ad ora è apparsa debole, per usare un eufemismo. E allora, è l’opinione riservata di esperti del settore, sarebbe il caso, vista la situazione, di accettare il fatto che non tutti quelli che lavorano a fianco del Papa sono fedeli; e adottare procedure e sistemi, anche di carattere tecnologico, in uso in tutti i Paesi per proteggere le zone e i documenti “sensibili”. In realtà abbiamo registrato un certo stupore da parte degli specialisti per l’assenza di queste precauzioni per difendersi dai nemici interni, oltre che da quelli esterni, certamente, in questo caso, meno pericolosi. Il Papa, e un miliardo e duecento milioni di cattolici ne hanno diritto. Una volta la fede bastava. Ora non più.
Marco Tosatti, Vatican Insider