"Preciso che vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, sono arrivato negli ultimi tempi, quelli della degenerazione, ad un punto di non ritorno, essendomi venuti meno i freni inibitori. Ero sicuro che uno shock, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario. Inoltre nei miei interessi c’è sempre stato quello per l’intelligence, in qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera un infiltrato". Le parole di Paolo Gabriele, messe a verbale, fanno piombare l’incredulo lettore del documento di rinvio a giudizio. Solo il romanziere americano poteva pensare, infatti, che un cameriere del Papa potesse sentirsi un "infiltrato dello Spirito Santo", e il lettore un po’ avveduto avrebbe pensato che, nella realtà, un simile abbaglio non sarebbe mai potuto avvenire perché certo la scelta della persona che doveva stare così vicino al pontefice non sarebbe mai caduta su un personaggio tanto instabile e tendente al fanatismo. Invece no: la realtà batte Dan Brown. E la perizia psichiatrica che lo dichiara inadatto a svolgere il compito a cui era stato preposto sembra smentita dai giudizi degli altri collaboratori vicini al Papa, che lo descrivono soprattutto come un buon padre di famiglia, se pure un po’ lento a capire e ad eseguire. Dalle descrizioni che emergono dagli interrogatori, largamente riportati nel documento, la "famiglia pontificia" viene fuori come una famiglia vera, in cui le persone che ne fanno parte si accettano con carità, perdonandosi le debolezze e le incapacità, e non come un luogo dove l’efficienza e il servizio ben fatto devono prevalere su tutto. Un luogo, come appunto avviene in famiglia, dove ciascuno si vergogna di sospettare degli altri, e cerca di giustificarli, ben conoscendo i loro limiti umani. Se non fosse stato così, un cameriere come Gabriele non avrebbe certo potuto ricoprire quel compito a lungo: alla lentezza nell’eseguire i suoi compiti, infatti, si accompagnavano, emerge dal documento, un’abitudine alla chiacchiera esagerata e il bisogno di conquistare l’attenzione di interlocutori anche importanti fornendo loro notizie sulla vita privata del Papa. Dagli interrogatori si delinea l’immagine di un pessimo cameriere, che chiunque avrebbe rapidamente sostituito, ma che qui si sopportava in nome della sua dichiarata devozione e del suo ruolo di padre di famiglia. Oltre naturalmente all’affetto che era nato in anni di collaborazione quotidiana. Certo, le stanze del Papa risultano ben diverse da quelle dei potenti della terra, dove alla pietà verso le debolezze umane e all’indulgenza verso le inadempienze si preferiscono ferrei controlli ed efficienza assoluta. Anche se dispiace molto che il cameriere sia arrivato a compiere quei gravi furti, e anche se si può pensare che forse qualcuno avrebbe potuto tenerlo d’occhio e accorgersene prima, non è certo una sorpresa sgradevole scoprire che intorno al pontefice i rapporti si annodino e si consolidino in base a categorie ben diverse da quelle dei potenti. E venire a sapere che il Papa sopporta con carità i difetti degli altri. Con il furto di documenti riservati, però, si è andati veramente oltre: il cameriere chiacchierone e incapace è diventato un ladro in grado di danneggiare la Chiesa. E a questo punto la scelta di Benedetto XVI è una scelta di giustizia e di verità: andare a fondo dell’inchiesta e renderla pubblica, invece di coprire le magagne sotto il tappeto per mantenere un’immagine meno negativa del Vaticano. Perché il Papa sa bene che l’immagine sana della Santa Sede può essere salvata solo dalla verità, anche se al momento proprio la verità sembra offuscare questa immagine. La lettura dei documenti fa emergere in modo netto e drammatico la solitudine del Pontefice, che tutti possono immaginare, ma che si staglia netta come non mai attraverso questa fotografia della sua vita quotidiana vista dalle "stanze della servitù", come in una sorta di Downtown Abbey vaticana. Un Papa reso indifeso dalla sua stessa "pietas" umana, dal suo rispetto verso gli altri, chiunque essi siano. Ma avremmo forse preferito un Benedetto XVI che controlla dove è finita la pepita d’oro inviatagli da un fedele, e che magari licenzia il cameriere tardo e distratto? No di certo, preferiamo un Papa che sta al di sopra di tutto questo, e che accetta con coraggio la propria solitudine, muovendosi solo quando la verità diventa condizione fondamentale per una purificazione della Chiesa. Forse, dal proseguimento delle indagini verranno fuori altre sgradevoli sorprese, i nomi secretati lo farebbero pensare ma quello che conta, per i cattolici, non è la corruzione in Vaticano, ma la via d’uscita che ha scelto Benedetto XVI.
Lucetta Scaraffia, Il Messaggero