Il caso più eclatante è stato quello della missione in Siria. “Benedetto XVI manda una delegazione di pace, parte presto, prestissimo, anzi no, chissà quando parte, forse non parte”, è stata, schematizzando un po’ brutalmente, la serie di annunci delle ultime due settimane in Vaticano. Ma anche la vicenda giudiziaria del maggiordomo del Papa, l’'affaire' lefebvriano, l’annuncio a sorpresa del “piccolo Concistoro” di novembre, nonché le ultime nomine di Curia hanno seguito, nello stesso lasso di tempo, un percorso a tornanti, uno stile rapsodico, per non dire uno zig zag in cui ogni passo correggeva, sconfessava, ribaltava quello precedente.
La Siria, innanzitutto. Il 16 ottobre il card. Tarcisio Bertone interviene al Sinodo sulla “nuova evangelizzazione” per annunciare che “il Santo Padre ha disposto che una delegazione si rechi nei prossimi giorni a Damasco” con lo scopo di esprimere “fraterna solidarietà a tutta la popolazione, con una offerta personale dei Padri Sinodali, oltre che della Santa Sede”, “vicinanza spirituale ai fratelli e sorelle cristiani” e “incoraggiamenti a quanti sono impegnati nella ricerca di un accordo rispettoso dei diritti e dei doveri di tutti, con una particolare attenzione a quanto previsto dal diritto umanitario”. L’annuncio, imprevisto, aveva dell’eclatante. Organizzare una spedizione in Siria di questi tempi non è scontato, sia per motivi di sicurezza che diplomatici, tanto meno lo è in quattro e quattr’otto. Ma tant’è, la Santa Sede annuncia l’invio, nel giro di una settimana, di un gruppo di cardinali rappresentanti di tutti i continenti. Passano pochi giorni, a Beirut, nel quartiere di Achrafieh, un’esplosione uccide il capo dell'intelligence libanese, il generale Wissam al-Hassan, e altre sette persone, bombe esplodono anche nel quartiere cristiano di Damasco, e, il 22 ottobre, il portavoce vaticano Federico Lombardi tira il freno a mano: “La annunciata missione in Siria di rappresentanti della Santa Sede e del Sinodo dei vescovi continua ad essere allo studio e in preparazione, al fine di attuarla quanto prima possibile, per rispondere efficacemente alle finalità proposte di solidarietà, pace e riconciliazione, nonostante i gravissimi fatti avvenuti recentemente nella regione”. Il giorno dopo lo stesso Bertone prende di nuovo la parola all’Assemblea sinodale per annunciare che “la visita verrà posticipata, probabilmente oltre la conclusione del Sinodo”. Qualche giorno dopo conclude: "Speriamo di farla, di non rinunciare". Poi più nulla. Cosa è successo? Le bombe, certo, ma non era chiaro sin dall’inizio che, in Siria e nei dintorni, il frangente non è tranquillo? E quanto ha pesato invece, sulla breve storia della missione sinodale, la divergenza, per non dire la spaccatura, tra la linea delle comunità cristiane locali, attente a non contestare un Assad che nel corso degli anni ha garantito loro una certa sicurezza, e la diplomazia vaticana, propensa ad incoraggiare un cambio di regime e, più in generale, a non demonizzare la “primavera araba”? Una linea, quest’ultima, dispiegata dal Papa nel recente viaggio in Libano e nell'Esortazione Apostolica "Ecclesia in Medio Oriente" che proprio a Beirut ha consegnato ai patriarchi e agli arcivescovi di tutto il Medio Oriente. Una linea contestata, però, dal più alto esponente della gerarchia cattolica siriana, il patriarca melchita Gregorios III Laham. Secondo il quale la Siria è, tuttora, il paese “più libero” del mondo arabo, mentre i ribelli sono “stranieri, controllati dagli stranieri e armati dagli stranieri”. A Roma per il Sinodo, Laham è stato tra i patriarchi mediorientali che si sono intrattenuti con il Papa il giorno prima dell’annuncio della missione in Siria. E’ stato lui a (mal) consigliare il Pontefice? Puntava a promuovere un viaggio che risultasse un 'endorsement' del regime di Assad da parte della Santa Sede? E il card. Timothy Dolan, che avrebbe dovuto far parte della delegazione sinodale, e che ha lasciato l'assemblea romana per 24 ore per cenare con Obama e Romney alla tradizionale cena di beneficienza della Alfred E. Smith foundation a New York, la sera del 18 ottobre, ha svolto un ruolo nel bloccare la missione? Alla cena di gala caduta tra l’annuncio della partenza e l’annuncio del suo rinvio si è consultato con il presidente degli Stati Uniti sul tema? Domande che serpeggiano senza trovare risposte ufficiali. E che, comunque, aiutano solo parzialmente a spiegare perché, sulla missione in Siria, il Vaticano è andato a zig zag.
Così come a zig zag la Santa Sede si è mossa su altri dossier importanti delle ultime settimane. Non tanto un problema di comunicazione, quanto di scelte prese ai vertici che hanno contraddetto quanto gli stessi vertici avevano deciso in precedenza. Il maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, è stato incarcerato lo scorso 25 ottobre in una cella della caserma della Gendarmeria vaticana. Le motivazioni della sentenza, prima, e una dura nota della Segreteria di Stato, poi, hanno ribaltato la prospettiva assodata sino a quel momento. Sembrava scontato che il Papa gli avrebbe concesso la grazia prima della detenzione. Lo facevano pensare gli insistenti rumors che si inseguivano da settimane nelle sacre stanze. Lo faceva pensare il fatto che l’ex assistente di camera aveva chiesto il perdono papale già in estate. Lo confermava la sentenza, che riconosceva a Gabriele una certa, pur delirante, buona fede. Lo suggeriva, in splendido stile vaticano, che non afferma né smentisce ma prepara la strada di una decisione con messaggi criptati ma neanche troppo, un articolo apparso su L’Osservatore Romano un articolo apparso pochi giorni dopo l’arresto, il 31 maggio, che, a firma dello psicologo Camillo Regalia, discettava sulla “importanza del perdono famigliare”, e quale ambiente più famigliare della famiglia pontificia? La grazia, insomma, sembrava a portata di mano. Tanto che la legale del maggiordomo, Cristiana Arru, non ha presentato ricorso alla sentenza di primo grado per un giudizio d’appello. E invece, niet. Niente grazia, quanto meno non subito. Non solo: Paolo Gabriele è stato rinchiuso non, come era stato affermato, anche ufficialmente, sino a quel momento, in un penitenziario italiano, ma nelle redivive carceri vaticane. Le spiegazioni si sprecano: il card. Bertone sarebbe stato infastidito dal fatto che i giornali di tutto il mondo hanno dipinto l’iter giudiziario come un “processo farsa”; Paolo Gabriele non ha ancora fornito sufficienti garanzie di non voler ripetere l’errore (la grazia, sottolinea la Segreteria di Stato, “presuppone ragionevolmente il ravvedimento del reo e la sincera richiesta di perdono al Sommo Pontefice e a quanti sono stati ingiustamente offesi”); in un carcere italiano, poi, l’ex maggiordomo sarebbe finito sotto la supervisione di uno Stato sì amico, ma pur sempre straniero, eventualità troppo rischiosa per un uomo che conosce troppi segreti di Stato del Vaticano. Tutte spiegazioni plausibili che, però, non spiegano perché, sino a pochi giorni prima dell’arresto, la linea era un’altra.
E poi, ancora, le più recenti nomine di Curia. Due uomini-cardine del “sistema Ratzinger” sono stati allontanati senza spiegazioni ufficiali. Promossi come vescovi in due diocesi dei loro paesi d’origine, sì, ma non ancora sostituiti, quasi che ci fosse più fretta di sconfessare la loro linea che non di procedere ad un fisiologico ricambio dei quadri dirigenziali. Mons. Charles J. Scicluna, coraggioso prelato anti-pedofilia, è stato nominato vescovo ausiliare di Malta, e Joseph W. Tobin, uomo-chiave del dialogo che il Vaticano ha ricucito lo strappo con le suore statunitensi dopo annose polemiche innescate da una visitazione percepita oltreatlantico come punitiva, torna a casa a guida della diocesi di Indianapolis. Ancora, il mini-Concistoro annunciato da Benedetto XVI durante il Sinodo. Il 24 novembre verranno creati sei nuovi cardinali. Al Concistoro di febbraio la Santa Sede, e in particolare il cardinale segretario di Stato vaticano Bertone, erano stati accusati di voler monopolizzare il prossimo conclave con un’infornata di nuove porpore italiane e curiali. “Vince il partito romano”, si disse. E ora il Papa ha spiegato di aver voluto, “con questo piccolo Concistoro”, “completare il Concistoro di febbraio”, “mostrando che la Chiesa è Chiesa di tutti i popoli, parla in tutte le lingue”, non è "Chiesa di un Continente, ma Chiesa universale”. E infine, i lefebvriani. Dall’arrivo di mons. Gerhard Ludwig Mueller alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, questa estate, i negoziati per il rientro dei tradizionalisti nella Chiesa cattolica e la sutura di uno scisma aperto negli anni Ottanta venivano dati per morti. Mueller lo ha fatto capire più che esplicitamente in numerose interviste, da ultimo a inizio ottobre. Poi, una nota della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" del 27 ottobre ha riaperto, improvvisamente, i giochi. Perché, vi si legge, per “la realizzazione della riconciliazione a lungo attesa della Fraternità sacerdotale di S. Pio X con la Sede di Pietro – una potente manifestazione del 'munus Petrinum' all’opera – sono necessarie pazienza, serenità, perseveranza e fiducia”. Virtù esaurite nel passato prossimo, riemerse negli ultimi giorni. Cambio di linea. Nuovo tornante. Zag e non zig.
Iacopo Scaramuzzi, Linkiesta