“Alcune modifiche da apportare al Codice di diritto canonico, che da tempo erano sottoposte allo studio dei dicasteri della Curia romana e delle Conferenze Episcopali”: così mons. Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, presenta il Motu Proprio “Omnium in mentem” ("All’attenzione di tutti"), firmato da Papa Benedetto XVI lo scorso 26 ottobre e reso noto questa mattina dalla Sala stampa della Santa Sede. Due le novità contenute nei cinque articoli del Motu Proprio: una precisazione sul diaconato per “adeguare il testo dei canoni che definiscono la funzione ministeriale dei diaconi al relativo testo del Catechismo della Chiesa Cattolica”, e la soppressione in tre canoni concernenti il matrimonio di “un inciso che l’esperienza ha rilevato inidoneo”. La prima variazione riguarda il testo dei canoni 1008 e 1009 del Codice di Diritto Canonico che si riferiscono ai sacri ministri: “per evitare di estendere al grado del diaconato la facoltà di ‘agere in persona Christi Capitis’, che è riservata soltanto ai vescovi ed ai presbiteri”, spiega mons. Coccopalmerio, “il Motu Proprio modifica il testo del can. 1008” che “si limiterà ad affermare, in maniera più generica, che chi riceve l’Ordine Sacro è destinato a servire il popolo di Dio per un nuovo e peculiare titolo”. La distinzione fra i tre gradi del sacramento dell’Ordine “viene adesso ripresa nel can. 1009 con l’aggiunta di un terzo paragrafo – prosegue mons. Coccopalmerio - nel quale viene precisato che il ministro costituito nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato riceve la missione e la facoltà di agire in persona di Cristo Capo, mentre i diaconi ricevono l’abilitazione a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità”. L’altra modifica introdotta dal Motu proprio riguarda la soppressione della clausola “actus formalis defectionis ab Ecclesia Catholica” (atto formale di abbandono della Chiesa Cattolica) nei canoni 1086 § 1, 1117 e 1124 del Codice di diritto canonico, “che dopo un lungo studio è stata ritenuta non necessaria e inidonea”. Si tratta di un inciso, spiega ancora il canonista, “con il quale si intendeva stabilire una eccezione alla regola generale del can. 11 Cic circa l’obbligatorietà delle leggi ecclesiastiche, col proposito di facilitare l'esercizio dello ‘ius connubii’ a quei fedeli che, a causa del loro allontanamento dalla Chiesa, difficilmente avrebbero osservato la legge canonica che esige una forma per la validità del loro matrimonio”. Tuttavia “le difficoltà di interpretazione e di applicazione di detta clausola” sono emerse in diversi ambiti”. La questione, sottolinea mons. Coccopalmerio, era stata sollevata fin dal 1997; diverse le consultazioni susseguitesi negli anni al riguardo tra i dicasteri della Curia romana e le Conferenze Episcopali. “La rilevanza concreta della modifica dei canoni 1086 § 1, 1117 e 1124 del Codice riguarda, dunque, l’ambito matrimoniale. Dall’entrata in vigore del CIC nel 1983 al momento dell’entrata in vigore di questo Motu proprio – chiarisce - , i cattolici che avessero fatto un atto formale di abbandono della Chiesa cattolica non erano tenuti alla forma canonica di celebrazione per la validità del matrimonio, né vigeva per loro l’impedimento di sposare non battezzati, né li riguardava la proibizione di sposare cristiani non cattolici”. Il menzionato inciso “inserito in questi tre canoni rappresentava una eccezione di diritto ecclesiastico, ad un’altra più generale norma di diritto ecclesiastico, secondo la quale tutti i battezzati nella Chiesa Cattolica o in essa accolti sono tenuti all’osservanza delle leggi ecclesiastiche. Dall’entrata in vigore del nuovo Motu Proprio, quindi, il citato can. 11 del Codice di Diritto Canonico riacquista vigore pieno per quanto riguarda il contenuto dei canoni ora modificati, anche nei casi in cui sia avvenuto un abbandono formale”, conclude mons. Coccopalmerio.