sabato 10 novembre 2012

Processo al tecnico informatico Claudio Sciarpelletti: condannato per favoreggiamento a due mesi con la condizionale, concesso il beneficio della sospensione della pena per 5 anni. L'avvocato farà ricorso in appello

Il Tribunale Vaticano ha condannato Claudio Sciarpelletti, il tecnico informatico della Segreteria di Stato, a quattro mesi di reclusione per favoreggiamento, pena ridotta a due, per “lo stato di servizio e la mancanza di precedenti penali”. La sentenza giunge nell’ambito delle indagini per furto aggravato di documenti riservati; filone che ha portato alla condanna anche dell’ex assistente di camera del Papa, Paolo Gabriele. A carico di Sciarpelletti disposto il pagamento delle spese processuali. Claudio Sciarpelletti secondo il Tribunale Vaticano ha aiutato ad “eludere le investigazioni dell’autorità”, nell’ambito dell’inchiesta per furto di documenti riservati. I magistrati hanno anche concesso la sospensione della pena “per cinque anni” e la non menzione della condanna nel casellario giudiziario a patto che Sciarpelletti non commetta altri reati. Accolta quindi la richiesta del promotore di giustizia, Nicola Picardi, respinta invece quella di assoluzione presentata dall’avvocato di parte, Gianluca Benedetti, che conferma il ricorso all'appello. In sostanza, i giudici hanno considerato, come un intralcio alla giustizia, le diverse dichiarazioni rilasciate da Sciarpelletti dopo il ritrovamento, in un cassetto della sua scrivania, di una busta con il timbro dell’Ufficio informazione della Segreteria di Stato e una scritta che indicava Paolo Gabriele. Avvocati e giudici oggi hanno ascoltato la ricostruzione di quanto accaduto nei mesi scorsi anche attraverso le deposizioni di quattro testimoni voluti dalla difesa. Sciarpelletti ha ribadito lo sconcerto, ha confermato la sua dedizione alla Santa Sede, che non conosceva il contenuto della busta, che aveva dimenticato di averla riposta in un cassetto inutilizzato e che non ricordava chi gliela avesse consegnata anche se ha escluso dai suoi ricordi sia Paolo Gabriele sia mons. Carlo Maria Polvani, responsabile dell'ufficio informazione della Segreteria di Stato, come precedentemente invece dichiarato ai gendarmi. In un passaggio particolarmente vibrante della sua deposizione, Polvani, dopo aver ringraziato il tribunale vaticano, i gendarmi e i suoi "superiori" in segreteria di Stato di non avere avuto "dubbi" sul suo conto, ha affermato: "Mio nonno Giovanni Polvani era presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e rettore all'università di Milano e visse con la contestazione il peggiore periodo della nostra storia. Gli studenti fecero irruzioni nel suo studio, sfasciarono il crocifisso e gli dissero: 'La prossima volta te lo sfasciamo in testa'. Non dico quello che passarono mio padre e i miei zii nel corso degli anni di piombo. La mia famiglia decise di lasciare l'Italia e andare all'estero. Mia madre piangeva ogni notte. Stare all'estero mi ha permesso di studiare in Francia e negli Stati Uniti, ma se sono prete oggi lo devo alle lacrime di mia madre e alla figura di Giovanni Paolo II. Vedere ora stupidaggini e idiozie che io sarei un frondista e che sarei addirittura ammiratore di Che Guevare non ha nulla a che fare con la mia traiettoria. Spero che alla fine trionfi la giustizia, il perdono e la verità e rinnovo la mia fiducia ai miei superiori e alla Segreteria di Stato". Ha poi tratteggiato l’efficiente profilo professionale di Sciarpelletti, pur sottolineando la tendenza del tecnico ad “andare nel pallone” per questioni personali. Poi ha precisato che il timbro rilevato sulla busta, oggetto del processo, è facilmente accessibile perché riposto in un corridoio frequentato da molte persone, anche dallo stesso Sciarpelletti. Ha poi precisato: "Per quanto mi risulta Sciarpelletti e Gabriele erano buoni amici". Sollecitato dai magistrati l’ex assistente di Camera ha confermato d'aver consegnato a Sciarpelletti i documenti contenuti nella busta, di non ricordare come e quando e che non si trattava di atti riservati d’ufficio, ma altro materiale tra cui una e-mail. Ha evidenziato che i due si confrontavano anche su questioni vaticane “che all’epoca dei fatti lo preoccupavano”. E che più di una volta ha invitato il tecnico a leggere documenti da lui selezionati frutto di ricerche su internet. Assente, per giustificati motivi, il capo della Gendarmeria Domenico Giani, l’avvocato di parte ha rinunciato ad acquisire la sua testimonianza. Concordi nel definire Sciarpelletti collaborativo, il vice comandante della Guardia Svizzera, William Kloter, e il vicecommissario della Gendarmeria, Gianluca Gauzzi Broccoletti, che nelle loro deposizioni hanno definito l’uomo spaventato dal ritrovamento della busta. Durante le deposizioni di oggi è emerso anche il nome di mons. Pietro Pennacchini in riferimento ad una busta che Sciarpelletti avrebbe dovuto portare a Gabriele. Nel briefing seguito alla sentenza il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha precisato che “Sciarpelletti ha dichiarato che lui riceveva delle buste e le portava a destinazione in altri uffici, cosa che succedeva abitualmente'' e che il fatto “che avesse ricevuto una busta da parte di un monsignore per portarla da un'altra parte era una prassi normale in un ufficio articolato''. Padre Lombardi ha anche precisato che da oggi decorre il termine di tre giorni per formalizzare il ricorso da parte del promotore di giustizia e di Sciarpelletti. "La magistratura -ha affermato Lombardi- ha detto che l'istruttoria non e' chiusa. Dipendera' ora dagli inquirenti. E' chiaro che la storia non e' finita". Quanto alla mite condanna inflitta a Sciarpelletti per favoreggiamento, anche padre Lombardi ha parlato di "condanna blanda". Padre Lombardi ha escluso che nel caso di Sciarpelletti possa scattare il licenziamento. "Non penso - ha detto -. Bisogna innanzitutto vedere se la difesa di Sciarpelletti fara' ricorso in appello ma mi par di capire che ci sia l'intenzione di non aggravare le conseguenze".

Radio Vaticana, TMNews, Adnkronos

DISPOSITIVO DI SENTENZA DEL TRIBUNALE DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO NEL PROCEDIMENTO PENALE A CARICO DEL SIGNOR SCIARPELLETTI CLAUDIO

Il Papa: la partecipazione del Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, la musica sacra. Voi che avete il dono del canto potete far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche

Questa mattina, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti all’incontro promosso dall’Associazione Italiana Santa Cecilia, che in circa 6mila hanno riempito l'Aula Paolo VI. Millecinquecento anni di distanza tra l’uno e l’altro e la medesima esperienza: il canto sacro che entra tra le pieghe dell’anima come come se le sue note fossero la voce di Dio. Per spiegare di cosa sia capace la musica sacra, Benedetto XVI si rifà a due celebri testimonianze. Quella di Agostino di Ippona, grande padre della Chiesa del IV-V secolo, che racconta delle lacrime che gli sciolgono dentro i salmi cantati nelle liturgie di Sant’Ambrogio a Milano. E quella di Paul Claudel, famoso poeta e drammaturgo francese scomparso a metà del Novecento, che abbraccia il cristianesimo in un “istante”, “grande” e “potente”, ascoltando il canto del Magnificat durante i Vespri di Natale nella Cattedrale di Notre-Dame: “Se infatti sempre la fede nasce dall’ascolto della Parola di Dio – un ascolto naturalmente non solo dei sensi, ma che dai sensi passa alla mente ed al cuore – non c’è dubbio che la musica e soprattutto il canto può conferire alla recita dei salmi e dei cantici biblici maggiore forza comunicativa”. Per il Papa, la testimonianza di Sant’Agostino aiuta a capire cosa significhi ciò che il Vaticano II ha stabilito nella "Sacrosanctum Concilium", la Costituzione dedicata alla liturgia, e cioè che “il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne”. E ha osservato: “Perché ‘necessaria ed integrante’? Non certo per motivi puramente estetici in un senso superficiale, ma perché coopera a nutrire ed esprimere la fede, e quindi alla gloria di Dio e alla santificazione dei fedeli, che sono il fine della musica sacra. Proprio per questo vorrei ringraziarvi per il prezioso servizio che prestate: la musica che eseguite non è un accessorio o un abbellimento della liturgia, ma è essa stessa liturgia”. Il canto del Magnificat che spazza via ogni “specie di dubbio” dall’anima di Claudel è l'esperienza di un uomo dei nostri giorni che per Benedetto XVI dimostra come il canto sacro aiuti la “partecipazione attiva” del Popolo di Dio alla liturgia che, ha sottolineato, “non consiste solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, e questo vale anche per la musica sacra. Voi, che avete il dono del canto, potete far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche”. “Ma, senza scomodare personaggi illustri, pensiamo a quante persone sono state toccate nel profondo dell’animo ascoltando musica sacra; e ancora di più a quanti si sono sentiti nuovamente attirati verso Dio dalla bellezza della musica liturgica come Claudel. E qui, cari amici, voi avete un ruolo importante: impegnatevi a migliorare la qualità del canto liturgico, senza aver timore di recuperare e valorizzare la grande tradizione musicale della Chiesa, che nel gregoriano e nella polifonia ha due delle espressioni più alte, come afferma lo stesso Vaticano II”. Una indicazione, questa, che il Papa ha affidato al lavoro dell’Antica Associazione Santa Cecilia accompagnandola dall’auspicio che “in Italia la musica liturgica tenda sempre più in alto” per mostrare “come la Chiesa sia il luogo in cui la bellezza è di casa".

Radio Vaticana

UDIENZA AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO DALL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SANTA CECILIA - il testo integrale del discorso del Papa
 

Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio 'Latina Lingua' di Benedetto XVI con la quale viene istituita la Pontificia Accademia di Latinità. Presidente Ivano Dionigi, segretario don Roberto Spataro

“La lingua latina è sempre stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici, i quali ne hanno assiduamente promosso la conoscenza e la diffusione, avendone fatto la propria lingua, capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo, come già autorevolmente affermato dalla Costituzione Apostolica Veterum sapientia del mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII”: è l'incipit della Lettera Apostolica scritta in forma di Motu Proprio con la quale Papa Benedetto XVI istituisce la Pontificia Accademia di Latinità dipendente dal Pontificio Consiglio della Cultura. Pubblicata ufficialmente su L'Osservatore Romano, la lettera è stata firmata oggi, memoria di San Leone Magno. “Sin dalla Pentecoste la Chiesa ha parlato e ha pregato in tutte le lingue degli uomini”, tuttavia, scrive il Papa nella sua Lettera Apostolica, “le comunità cristiane dei primi secoli usarono ampiamente il greco ed il latino”, strumenti di incontro tra la novità della Parola di Cristo e l’eredità della cultura ellenistico-romana. Sempre poi, continua, la lingua latina “è stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici”, che l’hanno eletta a propria lingua, perché “capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo”. Anche ai nostri tempi, osserva Benedetto XVI, la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta quanto mai necessaria per lo studio delle fonti a cui attingono discipline ecclesiastiche quali, ad esempio, la Teologia, la Liturgia, la Patristica ed il Diritto Canonico. Inoltre, proprio per evidenziare la natura universale della Chiesa, è “in questa lingua che sono redatti i libri liturgici del Rito romano, i più importanti Documenti del Magistero pontificio e gli Atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici”. Nella cultura contemporanea, prosegue il Papa, se da un lato "si nota il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale della lingua latina”, dall’altro, “proprio nel nostro mondo, nel quale tanta parte hanno la scienza e la tecnologia, si riscontra un rinnovato interesse”. Ecco perciò l’urgenza, si legge nel documento, di “sostenere l’impegno per una maggiore conoscenza e un più competente uso della lingua latina, tanto nell’ambito ecclesiale, quanto nel più vasto mondo della cultura”. Di questo dunque si occuperà la Pontificia Accademia di Latinità a cui, come prevede lo Statuto, spetterà curare pubblicazioni, incontri, convegni di studio e rappresentazioni artistiche; dare vita e sostenere corsi e altre iniziative formative; organizzare attività espositive, mostre e concorsi. Il Papa ha nominato il prof. Ivano Dionigi, mentre in veste di segretario ha designato il religioso salesiano, don Roberto Spataro. La loro nomina avrà durata di cinque anni e sarà costituita da un massimo di cinquanta membri ordinari, detti accademici, studiosi e cultori della materia, nominati dal segretario di Stato.

L'Osservatore Romano, Radio Vaticana

LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI MOTU PROPRIO "LATINA LINGUA" CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA PONTIFICIA ACADEMIA LATINITATIS

NOMINA DEL PRESIDENTE E DEL SEGRETARIO DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA DI LATINITÀ

Il Papa nomina prelato di Pompei e delegato pontificio per il Santuario della Madonna del Rosario mons. Tommaso Caputo, finora nunzio apostolico in Malta e in Libia

L'arcivescovo Tommaso Caputo (foto), 62 anni, nunzio apostolico a Malta, e in Libia è stato nominato oggi da Papa Benedetto XVI nuovo arcivescovo-prelato di Pompei (Napoli) e delegato pontificio per il Santuario della Beata Maria Vergine del Santo Rosario. Sacerdote dal 1974, originario di Napoli, mons. Caputo è dal 1980 nel servizio diplomatico della Santa Sede, dove per quattro anni è stato alla Segreteria di Stato. Alla guida della prelatura di Pompei e del Santuario mariano succede a mons. Carlo Liberati, dimessosi per raggiunti limiti di età. Mons. Caputo trascorrerà il Natale proprio in Libia, dove presiederà le funzioni religiose, e successivamente provvederà a salutare le autorità diplomatiche. Caputo parlando con l'Ansa ha evidenziato come il Santuario di Pompei per milioni di fedeli "ma soprattutto per noi campani è e resterà un punto di riferimento importante". Un punto di riferimento per la preghiera, ha evidenziato ancora mons. Caputo, ma anche per le tante opere di carità, volute da Bartolo Longo, "che non finiranno mai". "Sono pieno di trepidazione, ma anche di gioia - ha detto il nuovo presule - sapendo che Maria accompagnerà tutti i miei passi e mi guiderà nel cammino che insieme dovremo compiere per crescere nella fede. Mi dispongo, perciò, a venire tra voi - ha proseguito - sapendo di pormi nel solco di una lunga e irripetibile vicenda che porta il segno di Maria".

Ansa, Corriere del Mezzogiorno.it

NOMINA DEL PRELATO DI POMPEI E DELEGATO PONTIFICIO PER IL SANTUARIO DELLA BEATA MARIA VERGINE DEL S. ROSARIO 

Il Papa: il luminoso esempio di San Francesco susciti perduranti propositi di fedeltà a Cristo e di generoso impegno nella testimonianza della perenne novità del messaggio cristiano

Il luminoso esempio di San Francesco susciti in voi “perduranti propositi di fedeltà a Cristo e di generoso impegno nella testimonianza della perenne novità del messaggio cristiano”. E’ l’esortazione che il Papa rivolge agli oltre 4mila universitari romani in pellegrinaggio ad Assisi. Nel suo messaggio al vescovo Lorenzo Leuzzi, delegato per l’Ufficio della Pastorale universitaria di Roma, il Papa assicura le sue preghiere ai giovani universitari augurando loro “un fruttuoso anno accademico”. Il pellegrinaggio ha come tema un versetto del Vangelo di Luca, “Il padre lo vide da lontano”, e si svolge nei luoghi di San Francesco, definito dal Papa nel suo messaggio “testimone privilegiato di Gesù e del suo Vangelo”.

Radio Vaticana

Card. Koch: spero che con il primate Welby potremo continuare ed approfondire le buone relazioni tra la Chiesa anglicana e quella cattolica. Benedetto XVI lo inviterà dopo la sua intronizzazione

Papa Benedetto XVI inviterà il nuovo arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione Anglicana, Justin Welby, dopo la sua intronizzazione il prossimo 21 marzo. Lo ha annunciato il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, alla Radio Vaticana. ''Auguro al nuovo vescovo ogni bene e la benedizione di Dio per lui e per la sfida che deve affrontare... la situazione non facile della Comunione Anglicana. E spero che potremo continuare ed approfondire le buone relazioni tra la Chiesa anglicana e quella cattolica'', ha detto Koch. Il Papa invierà un messaggio a Welby in occasione della sua intronizzazione.
 
Asca
 

Luci e ombre del Concilio Vaticano II: la lacuna dell'azione missionaria della Chiesa. La genesi del decreto 'Ad gentes' e dell'Enciclica del 1990 'Redemptoris missio' nelle memorie inedite di padre Piero Gheddo

Nel Sinodo dello scorso ottobre sulla nuova evangelizzazione ha fatto impressione la critica rivolta dal cardinale indiano Telesphore Placidus Toppo a quegli ordini religiosi che agiscono "come multinazionali per rispondere ai bisogni materiali dell’umanità, dimenticando tuttavia che il fine principale della loro fondazione è quello di portare il 'kerygma', il Vangelo, a un mondo perduto". La critica non è nuova. Ed è stata rivolta dagli ultimi Papi, più volte, alla generalità della Chiesa Cattolica, sollecitata a ravvivare il suo raffreddato spirito missionario. Lo spartiacque è stato il Concilio Vaticano II. "Fino al Concilio la Chiesa viveva una stagione di fervore missionario oggi inimmaginabile", ricorda padre Piero Gheddo del Pontificio Istituto Missioni Estere, che fu uno degli esperti chiamati al Concilio da Giovanni XXIII per lavorare alla stesura del documento sulle missioni. Ma poi vi fu un crollo repentino. Tant'è vero che nel 1990, venticinque anni dopo l'approvazione del decreto conciliare "Ad gentes", Giovanni Paolo II sentì la necessità di dedicare alle missioni un'Enciclica, la "Redemptoris missio", proprio per scuotere la Chiesa dal suo torpore. Padre Gheddo fu chiamato a lavorare alla stesura anche di questa Enciclica. E dice: "Giovanni Paolo II, con la 'Redemptoris missio', voleva certamente confermare il decreto conciliare 'Ad gentes', ma intendeva anche colmare una lacuna di quel testo molto bello ma affrettato e incompleto. Cioè voleva trattare temi che nel Vaticano II erano stati esaminati affrettatamente o addirittura ignorati. E posso ben dirlo avendo incontrato parecchie volte il Papa mentre preparavo le tre stesure del documento, tra l'ottobre del 1989 e il luglio del 1990". In queste settimane padre Gheddo, che ha 83 anni, ha compiuto innumerevoli viaggi in tutti i continenti, ha scritto più di ottanta libri tradotti in più lingue ed è stato fino al 2010 direttore dell'ufficio storico del Pontificio Istituto Missioni Estere, sta rimettendo ordine alle sue memorie riguardanti il Concilio e il dopo. Alcuni suoi appunti sono stati ripresi da Zenit e AsiaNews. Sulla vicenda del decreto conciliare "Ad gentes" che egli ha aiutato a scrivere padre Gheddo dice: "Il decreto ha avuto un cammino quanto mai laborioso e contrastato. Anzitutto, le esigenze e le soluzioni proposte dai Padri conciliari erano molto diverse a seconda dei continenti. Per fare solo un esempio che ricordo bene: dalle Chiese asiatiche, ricche di vocazioni e con un'antica tradizione celibataria nelle religioni locali, si insisteva nella richiesta di mantenere il celibato sacerdotale; dall'America Latina e dall'Africa, invece, alcuni episcopati ne chiedevano l'abolizione, o l'ammissione di clero sposato a certe condizioni". Il documento rischiò persino di essere cancellato. Prosegue il racconto di padre Gheddo: "Le difficoltà aumentano quando il 23 aprile 1964, fra la II e la III sessione conciliare, la segreteria del Concilio manda una lettera alla nostra Commissione: lo schema sulle missioni deve essere ridotto a poche proposte. Non più un testo lungo e ragionato, ma un semplice elenco di proposte. Il tentativo era di semplificare i lavori del Concilio e farlo terminare con la III sessione. Alcuni testi basilari potevano essere abbastanza ampi; altri, ritenuti meno importanti, dovevano limitarsi a poche pagine di proposte. Era voce comune che le spese per i Padri conciliari, circa 2.400 in tutto, e la macchina del concilio fossero del tutto insostenibili per la Santa Sede". "La commissione delle missioni lavora a spron battuto, anche di notte, per obbedire a questa richiesta, concentrando il testo in 13 proposte. Ma appena la notizia si diffonde fra i vescovi arrivano le proteste, alcune veementi come quella del cardinale Frings di Colonia, che manda lettere ai vescovi tedeschi e ad altri, sollecitandoli a protestare: ?Ma come! Si afferma che lo sforzo missionario è essenziale per la Chiesa e poi si vuol ridurlo a poche pagine? Incomprensibile, impossibile, inaccettabile?". "Un gruppo di vescovi chiede di abolire il documento sulle missioni, integrando il materiale nella Costituzione "Lumen gentium" sulla Chiesa. Altri invece, più numerosi e agguerriti (c'erano tra loro missionari 'di foresta' che solo al vederli non si poteva dire loro di no), procedono a contatti personali, uno per uno, con tutti i padri conciliari, conquistando seguaci. La battaglia in aula si conclude con successo: solo 311 padri conciliari si pronunziano a favore del documento sulle missioni ridotto a 13 proposte, mentre 1601 chiedono che il decreto missionario sia salvato nella sua interezza. La sua sorte è rimandata alla IV sessione del concilio, la più lunga di tutte, dal 14 settembre all'8 dicembre del 1965". Uno dei punti controversi riguarda il ruolo della Congregazione "de Propaganda Fide": "Da un lato si chiedeva addirittura l'abolizione della congregazione per l'evangelizzazione dei non cristiani. Al contrario, molti Padri conciliari chiedevano il suo potenziamento, affinchè ricuperasse un ruolo guida, superando la funzione solo giuridica e di finanziamento delle diocesi missionarie che era venuta assumendo". "Infatti, dalla nascita nel 1622 fino all'inizio del XX secolo 'Propaganda Fide' aveva avuto un ruolo forte, vigoroso, nella strategia e nella guida concreta del lavoro missionario, così come nella vita degli istituti e dei missionari stessi. Ma poi il suo ruolo si riduce, mentre acquista forza la segreteria di Stato, con le relative nunziature apostoliche. Non pochi vescovi missionari volevano quindi rafforzare la congregazione delle missioni, della cui libertà d'azione sentivano grande necessità, a garanzia della loro stessa libertà". La richiesta di questi vescovi missionari non è andata in porto, dice padre Gheddo, "anche perchè la tendenza alla centralizzazione e unificazione del governo della Chiesa era forse inevitabile". Viceversa, su un altro punto controverso, a un gruppo di vescovi delle regioni amazzoniche arrise il successo: "È una vicenda che ho seguito di persona", ricorda padre Gheddo. "Mons. Arcangelo Cerqua del PIME, prelato di Parintins nell'Amazzonia brasiliana, e mons. Aristide Pirovano anche lui del PIME, prelato di Macapà in Amazzonia, si fecero promotori di un'azione 'lobbistica' che portò a inserire nel decreto 'Ad gentes', all'ultimo momento, la nota 37 del capitolo 6, che equipara le prelature dell'Amazzonia brasiliana (all'epoca 35) ma anche molte altre dell'America latina ai territori missionari dipendenti da 'Propaganda Fide'. Senza questa equiparazione l'America latina sarebbe rimasta esclusa dagli aiuti delle pontificie opere missionarie, dei quali oggi beneficia. "Nella votazione decisiva, nel novembre del 1965, 117 Padri dell'America latina bocciano il testo messo ai voti, che non fa parola delle prelature. Troppo pochi, su 2.153 votanti. Contemporaneamente, però, altri 712 Padri votano a favore ma "iuxta modum", obbligando quindi a riscrivere il testo, perché non pienamente approvato dai due terzi dei votanti. E così si è riusciti a far inserire le prelature dell’America Latina fra i territori aiutati delle Pontificie Opere Missionarie". Commenta padre Gheddo: "Fatti come questi, ma anche parecchi altri, ad esempio l’approvazione della collegialità del Papa con l’episcopato, confermano l'evidente intervento dello Spirito Santo nel guidare l'assemblea del Vaticano II". Ciò non toglie, prosegue padre Gheddo,  che nell'intervallo tra la III e la IV sessione del Vaticano II "c'era in commissione un senso di ansia, in qualcuno anche di quasi disperazione". "Il testo inviato ai vescovi nell'estate del 1965 era cinque volte più esteso delle precedenti 13 proposte a cui si era tentato di ridurlo. Pareva un successo incredibile. Ma l'impegno più pesante per la commissione di stesura veniva dopo. I mesi decisivi sono ottobre e novembre. Si arricchisce il testo con molte delle osservazioni suggerite dai vescovi. In novembre ci sono venti votazioni che lo approvano a grande maggioranza, ma con altre 500 pagine di "modi", di suggerimenti, di proposte in aula che chiedono ancora aggiunte, correzioni, diverse formulazioni. Mancava meno di un mese al termine del Concilio e ancora sembrava quasi di dover ricominciare da capo! "Poi, misteriosamente, alla fine tutto andò a posto. L'insieme del decreto è approvato nell'ultima seduta pubblica con 2.394 voti favorevoli e solo 5 contrari, il più alto livello di unanimità nelle votazioni dell'intero Concilio. 'Lo Spirito Santo c'è davvero!', esclamò il card. Agagianian, prefetto di 'Propaganda Fide' e uno dei quattro moderatori dell'assise". Già nell'immediato postconcilio, tuttavia, il sogno di una nuova Pentecoste missionaria cedette il passo a una opposta realtà. Ricorda padre Gheddo: "Si riduceva l'obbligo religioso di evangelizzare a impegno sociale: l'importante è amare il prossimo, fare del bene, dare testimonianza di servizio, come se la Chiesa fosse un'agenzia di aiuto e di pronto intervento per rimediare alle ingiustizie e alle piaghe della società. Si esaltavano l'analisi 'scientifica' del marxismo e il terzomondismo. Si proclamavano come verità tesi del tutto false, ad esempio che non è importante che i popoli si convertano a Cristo, purché accolgano il messaggio di amore e di pace del Vangelo". Queste tendenze si manifestano anche tra i vescovi che prendono parte nel 1974 al Sinodo sull'evangelizzazione. È Paolo VI, con l'Esortazione Apostolica postsinodale "Evangelii nuntiandi" del 1975 a riaffermare con forza che "anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente se il nome, l'insegnamento, la vita e le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati". "Ma Paolo VI non fu ascoltato", commenta padre Gheddo. E anche il suo successore Giovanni Paolo II, con l'enciclica "Redemptoris missio" del 1990, si scontrò con un muro di incomprensione. Ricorda padre Gheddo che collaborò col papa alla sua stesura: "Non pochi, nella curia vaticana, contestarono quell'Enciclica prima ancora che uscisse. Dicevano: 'Un'Enciclica è troppo, può bastare una lettera apostolica, come si fa per l'anniversario di un testo conciliare'. Ma anche dopo la sua uscita la 'Redemptoris missio' fu sottovalutata nella Chiesa, da teologi, missiologi, riviste missionarie. Dicevano: 'Non dice niente di nuovo'. Quando invece introduceva temi nuovi e assolutamente rivoluzionari, nemmeno sfiorati dal decreto conciliare 'Ad gentes', come ad esempio nel capitolo intitolato 'Promuovere lo sviluppo educando le coscienze'. Aveva ragione Giovanni Paolo II a constatare che nella storia della Chiesa la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione segno di una crisi di fede". Prosegue padre Gheddo: "Osservando oggi le riviste e i libri, i congressi, le campagne di enti e organismi missionari, viene da chiedersi se la 'Redemptoris missio' sia conosciuta e vissuta. Diciamo la verità. La gravissima diminuzione delle vocazioni missionarie dipende anche da come la figura del missionario e della missione alle genti è presentata. "Mezzo secolo fa si facevano le veglie e le marce missionarie facendo parlare i missionari sul campo, chiedendo a Dio più vocazioni per la missione alle genti e incoraggiando i giovani a offrire la loro vita per le missioni. Oggi prevale la mobilitazione su temi quali la vendita delle armi, la raccolta di firme contro il debito estero dei paesi africani, l’acqua bene pubblico, la deforestazione, eccetera. Quando temi come questi acquistano il maggior peso nell'animazione missionaria, è inevitabile che il missionario si riduca a un operatore sociale e politico. "Chiedo: è mai pensabile che un giovane o una ragazza si sentano attirati a diventare missionari, se vengono educati a fare denunce e proteste, a raccogliere firme contro le armi o il debito estero? Per avere più vocazioni missionarie occorre affascinare i giovani al Vangelo e alla vita in missione, fare in modo che si innamorino di Gesù Cristo, l’unica ricchezza che abbiamo. Tutto il resto viene di conseguenza". Con Benedetto XVI, in primo piano è venuta la lotta contro il relativismo, contro l'idea che tutte le religioni si equivalgano e siano vie di salvezza. Tra i molti testi di questo Pontificato sul tema c'è la nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede su alcuni aspetti dell’evangelizzazione. Commenta padre Gheddo: "La nota è stata voluta e approvata dal Papa; è stata pubblicata il 3 dicembre 2007, festa del missionario per eccellenza San Francesco Saverio; eppure è stata quasi ignorata dalla stampa cattolica e missionaria, quando invece è un testo che gli istituti missionari diocesani, la stampa, i gruppi e le associazioni missionarie dovrebbero conoscere e discutere per avere un preciso punto di riferimento nella temperie di secolarizzazione e relativismo, che rischia di farci perdere la bussola della retta via". Ma nonostante tutto questo, padre Gheddo continua ad avere fiducia e snocciola a conferma alcune cifre: "C’è oggi troppo pessimismo sull’efficacia della missione fra i non cristiani. La realtà è diversa. Nella storia millenaria della Chiesa non c’è nessun continente che si sia convertito a Cristo così rapidamente come l’Africa. Nel 1960 i cattolici africani erano circa 35 milioni con 25 vescovi locali, oggi sono 172 milioni con circa 400 vescovi africani. Secondo il Pew Research Center di Washington, nel 2010 in tutta l’Africa cristiani e musulmani hanno ambedue poco meno di 500 milioni di fedeli, ma nella sola Africa nera a sud del Sahara i cristiani sono 470 milioni e i musulmani 234. "Nel 1960 in Asia c’erano 68 vescovi asiatici e in nessun paese si notava una crescita sostenuta dei battezzati. Solo in India c'era un buon tasso di conversioni e qui oggi i cattolici sono almeno 30 milioni, il doppio della cifra dichiarata. Lo stesso vale per l’Indonesia, lo Sri Lanka, la Birmania, il Vietnam, dove i cattolici sono già il 10% degli 85 milioni di vietnamiti, con numerose conversioni e vocazioni. Nel 1949, quando Mao salì al potere, la Cina aveva 3,7 milioni di cattolici; oggi, nonostante la persecuzione, se ne stimano 12-15 e i cristiani nel loro insieme sono 45-50 milioni. Nella Corea del Sud, dove la religione è libera e le statistiche credibili, i cattolici sono più di 5 milioni, il 10,3% dei sud-coreani, e i cristiani, tutti assieme, il 30%. "L’effetto positivo del concilio e dei papi è evidente nella promozione delle giovani Chiese, che oggi sono missionarie fuori dei propri paesi e verso l’Occidente. Gli stereotipi che la missione alle genti sia finita e che non abbia più efficacia vanno azzerati perché non corrispondono alla realtà dei fatti. "Ha scritto Giovanni Paolo II nella 'Redemptoris missio': 'La missione alle genti è appena agli inizi'. Non conosciamo i piani di Dio, ma probabilmente anche questo periodo di stasi della missione alle genti ha il suo significato positivo. Lo capiremo forse fra mezzo secolo".

Sandro Magister, www.chiesa