lunedì 18 febbraio 2013

Card. Ratzinger: la 'reformatio' della Chiesa, necessaria in ogni tempo, consiste nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà

Era sabato 1° settembre 1990 ed il card Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, conclude il Meeting dell’Amicizia tra i popoli sul tema "Una compagnia sempre riformanda" davanti ad un affollato auditorium della vecchia Fiera di Rimini, che parla della Chiesa. Per caso, tra le mie scartoffie, alcuni mesi fa, avevo ritrovato quel testo, ed ora rileggendolo sembra molto attuale, fin dal suo incipit: “La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non sembra poter cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto il tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta? Ma chiediamoci innanzitutto: perché la Chiesa riesce sgradita a così tante persone, e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o che, pur tra sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi?”. A queste sue provocatorie domande il card. Ratzinger aveva proposto alcune piste di riflessione: “Alcuni soffrono perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo d'oggi; altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della gente, la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è un’istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà. La sete di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati. L’invocazione di libertà aspira ad un’esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico, affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore della rinuncia”. A questo punto il card. Ratzinger ha spiegato perché in molti esiste l’amarezza contro la Chiesa: “Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch’essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell'utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell'azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto e per tutti”. Ma una Chiesa che abbandona l’esser guidata da Qualcuno rischia di naufragare in una riforma inutile con il rischio di dissolvenza: “La 'reformatio', quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la ‘nostra’ Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà… Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una 'ablatio': un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente. Una simile 'ablatio', una simile ‘teologia negativa’, è una via verso un traguardo del tutto positivo”. Secondo Ratzinger la liberazione che la Chiesa può darci è stare nell’orizzonte dell’Eterno attraverso il perdono: “La Chiesa non è una comunità di coloro che ‘non hanno bisogno del medico’, bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri. Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è ‘un fare come se non’, ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie. Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l'avvento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell'unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la forma essenziale dell'esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare all’attività creatrice di Dio… Si riconosce che non c’è riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussioni. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una ‘legge’, che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato. Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi… La morale conserva la sua serietà solamente se c'è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il ‘prezzo d’acquisto’, l’‘equivalente nello scambio’, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra ‘morale - perdono –espiazione’ non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall'indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è redenzione oppure no”. Quindi per il card. Ratzinger non “si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall'espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti… E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della morte. Di essa fanno parte tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati...Ma una vita umana senza dolore non c’è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi...La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena...Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire! Allora la Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa”.

Simone Baroncia, Korazym.org

Esercizi spirituali. Card. Ravasi: le cose umane bisogna capirle per poterle amare, mentre le cose divine bisogna amarle per capirle. Devi gettarti prima nel mare della fede e poi cominciare a navigare, credere e comprendere si incrociano necessariamente

Benedetto XVI e la Curia romana sono impegnati da ieri sera negli Esercizi Spirituali per la Quaresima. Stamani, nella Cappella Redemptoris Mater, in Vaticano, sono proseguite le meditazioni predicate dal card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, sul tema “Ars orandi, ars credendi. Il volto di Dio e il volto dell’uomo nella preghiera salmica”. Ad ispirare stamani la riflessione del cardinale Ravasi, il salmo 119, nel quale la Parola è guida all’interno della nebbia, “lampada per i miei piedi è la tua parola”. Una luce che spezza le tenebre in particolare nella cultura di oggi che – afferma il porporato – è in un orizzonte fluido, incerto, dove si celebra l’amoralità, l’assoluta indifferenza per cui “non c’è più distinzione tra dolce e amaro” e dove tutto è genericamente grigio. Pertanto il confronto con la Parola è essenziale, essa ci indica la vera scala dei valori, “spesso calibrata solo sulle cose, sul denaro, sul potere”. Parola che è pure annuncio ma anche principio di fiducia. Nel Salmo 23, c’è poi la condivisione della strada, Dio è pastore che guida il gregge e che è, allo stesso tempo, compagno di viaggio, elementi che rimarcano il valore della grazia: verità da un lato e amore dall’altro. Unica la meta, conclude il cardinale, ovvero il Tempio, la mensa imbandita, il sacrificio di comunione dunque la celebrazione della liturgia: “La Parola come prima grande epifania che è cantata nel Salterio e che io, pregando, scopro. Sento non soltanto le mie parole che risuonano, c’è anche la Parola di Dio che risuona in me”. Al centro della terza meditazione, sempre stamani, la teofania del Creatore che opera proprio attraverso la sua prima epifania, la Parola. Il creato, evidenzia il card. Ravasi, è “una diversa parola di Dio”, “contiene una musica teologica silenziosa” aveva precisato il commentatore tedesco del Salterio Gunkel, “un messaggio che non conosce parole sonore o echi e che però percorre tutto l’universo”. E’ il Salmo 19 a ribadire come gli spazi astrali siano “narratori” dell’opera creatrice di Dio. Necessario quindi tornare a contemplare: “L’assenza dello stupore nell’uomo contemporaneo è segno di superficialità. E’ chino solo sull’opera delle sue mani, è incapace di alzare gli occhi verso il cielo, di ammirare in profondità i due estremi dell’universo e del microcosmo. E questo ha fatto così che l’uomo, privo di contemplazione, ha deturpato la terra, usandola soltanto strumentalmente. Non ha più il senso della terra come sorella”. Parte della meditazione è stata poi dedicata al dialogo tra fede e scienza, tema amato dal teologo Ratzinger, due magisteri non sovrapponibili, distinti ma non totalmente separati. La fede risponde ai perché; la scienza ai come. E’ Pascal, secondo Ravasi, a sintetizzare sugli eccessi da evitare: “escludere la ragione, non ammettere che la ragione”; e allo stesso tempo è il filosofo ad indicare una via: “le cose umane bisogna capirle per poterle amare, mentre le cose divine bisogna amarle per capirle”. “Devi gettarti prima nel mare della fede – aggiunge il porporato – e poi cominciare a navigare, credere e comprendere si incrociano necessariamente”. Via della preghiera quindi e via della teologia che procedono “in contrappunto e non in opposizione”. L’armonia delle due strade è esaltata simbolicamente nel Salmo 19 con il duplice sole: astro che sfolgora nel cielo e la Parola di Dio come sole: “Quindi il sole fiammeggia nel cielo e ci parla della rivelazione cosmica. Ma c’è poi la Parola di Dio che è l’altro sole, che ci illumina in pienezza. Ecco, parola rivelatrice e parola creatrice”.

Radio Vaticana

La fine del vecchio e l'inizio del nuovo. Benedetto è l'uomo dei paradossi: linguaggio sommesso, voce forte, mitezza e rigore. Pensa in grande eppure presta attenzione al dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e rivelare i misteri della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei professori

di Peter Seewald

Il nostro ultimo incontro risale a ben dieci settimane fa. Il Papa mi aveva accolto nel Palazzo Apostolico per proseguire i nostri colloqui finalizzati al lavoro sulla sua biografia. L'udito era calato; l'occhio sinistro non vedeva più; il corpo smagrito, tanto che i sarti facevano fatica a tenere il passo con nuovi abiti. È diventato molto delicato, ancora più amabile e umile, del tutto riservato. Non appare malato, ma la stanchezza che si era impossessata di tutta la sua persona, corpo e anima, non si poteva più ignorare. Abbiamo parlato di quando ha disertato dall'esercito di Hitler; del suo rapporto con i genitori; dei dischi su cui imparava le lingue; degli anni fondamentali sul "Mons doctus", il monte dei dotti di Freising dove da 1.000 anni l'élite spirituale del Paese viene introdotta ai misteri della fede. Qui aveva tenuto le sue primissime prediche davanti a un pubblico di scolari, da parroco aveva assistito gli studenti e nel freddo confessionale del Duomo aveva dato ascolto alle pene della gente. Ad agosto, durante un colloquio a Castel Gandolfo, durato un'ora e mezzo, gli avevo chiesto quanto lo avesse colpito l'affare Vatileaks. "Non mi lascio andare a una sorta di disperazione o di dolore universale - mi ha risposto - semplicemente mi appare incomprensibile. Anche considerando la persona (Paolo Gabriele), non capisco cosa ci si possa aspettare. Non riesco a penetrare la sua psicologia". Sosteneva tuttavia che l'evento non gli aveva fatto perdere la bussola né gli aveva fatto sentire la stanchezza del suo ruolo, "perché può sempre accadere". L'importante per lui era che nell'elaborazione del caso "in Vaticano sia garantita l'indipendenza della giustizia, che il monarca non dica: adesso me ne occupo io!". Mai lo avevo visto così esausto, così prostrato. Con le ultime forze rimaste aveva portato a termine il terzo volume della sua opera su Gesù, "il mio ultimo libro", come mi ha detto con sguardo triste al momento dei saluti. Joseph Ratzinger è un uomo incrollabile, una persona capace sempre di riprendersi rapidamente. Mentre due anni addietro, malgrado i primi disturbi dell'età, appariva ancora agile, quasi giovanile, ora percepiva ogni nuovo raccoglitore che approdava sulla sua scrivania da parte della Segreteria di Stato come un colpo. "Cosa ci si deve ancora aspettare da Sua Santità, dal Suo Pontificato?", gli ho chiesto. "Da me? Da me non molto. Sono un uomo anziano e le forze mi abbandonano. Penso che basti ciò che ho fatto". Pensa di ritirarsi? "Dipende da cosa mi imporranno le mie energie fisiche". Lo stesso mese ha scritto a uno dei suoi dottorandi che il successivo incontro sarebbe stato l'ultimo. Pioveva a Roma, nel novembre del 1992, quando ci incontrammo per la prima volta nel Palazzo della Congregazione per la Dottrina della Fede. La stretta di mano non era di quelle che ti spezzano le dita, la voce piuttosto insolita per un "panzerkardinal", mite, delicata. Mi piaceva come parlava delle questioni piccole, e soprattutto delle grandi; quando metteva in discussione il nostro concetto di progresso e chiedeva di riflettere se davvero si potesse misurare la felicità dell'uomo in base al prodotto interno lordo. Gli anni lo avevano messo a dura prova. Veniva descritto come un persecutore mentre era un perseguitato, il capro espiatorio da chiamare in causa per ogni ingiustizia, il "grande inquisitore" per antonomasia, una definizione azzeccata quanto spacciare un gatto per un orso. Eppure nessuno l'ha mai sentito lamentarsi. Nessuno ha sentito uscire dalla sua bocca una cattiva parola, un commento negativo su altre persone, nemmeno su Hans Küng. Quattro anni dopo abbiamo trascorso insieme molte giornate, per parlare del progetto di un libro sulla fede, la Chiesa, il celibato e l'insonnia. Il mio interlocutore non camminava in giro per la stanza, come fanno abitualmente i professori. Non c'era in lui la minima traccia di vanità, né di presunzione. Mi colpivano la sua superiorità, il pensiero non al passo coi tempi ed ero in qualche modo sorpreso di udire risposte pertinenti ai problemi del nostro tempo, apparentemente quasi irrisolvibili, tratte dal grande tesoro di rivelazione, dall'ispirazione dei padri della Chiesa e dalle riflessioni di quel guardiano della fede che mi sedeva di fronte. Un pensatore radicale, questa era la mia impressione, e un credente radicale che tuttavia nella radicalità della sua fede non afferra la spada, ma un'altra arma molto più potente: la forza dell'umiltà, della semplicità e dell'amore. Joseph Ratzinger è l'uomo dei paradossi. Linguaggio sommesso, voce forte. Mitezza e rigore. Pensa in grande eppure presta attenzione al dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e rivelare i misteri della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei professori, fredda come la cenere. Così come egli stesso è equilibrato, così insegnava; con la leggerezza che gli era propria, con la sua eleganza, la sua capacità di penetrazione che rende leggero ciò che è serio, senza privarlo del mistero e senza banalizzare la sacralità. Un pensatore che prega, per il quale i misteri di Cristo rappresentano la realtà determinante della creazione e della storia del mondo, un amante dell'uomo che alla domanda, quante strade portino a Dio, non ha dovuto riflettere a lungo per rispondere: "Tante quanti sono gli uomini". È il piccolo Papa che con la matita ha scritto grandi opere. Nessuno prima di lui, il massimo teologo tedesco di tutti i tempi, ha lasciato al popolo di Dio durante il suo Pontificato un'opera altrettanto imponente su Gesù né ha redatto una cristologia. I critici sostengono che la sua elezione sia stata una scelta sbagliata. La verità è che non c'era un'altra scelta. Ratzinger non ha mai cercato il potere. Si è sottratto al gioco degli intrighi in Vaticano. Conduceva da sempre la vita modesta di un monaco, il lusso gli era estraneo e un ambiente con un comfort superiore allo stretto necessario gli era completamente indifferente. Ma restiamo alle presunte piccole cose, spesso molto più eloquenti delle grandi dichiarazioni, dei congressi e dei programmi. Mi piaceva il suo stile pontificale; che il suo primo atto sia stata una lettera alla Comunità ebraica; che abbia tolto la tiara dallo stemma, simbolo anche del potere terreno della Chiesa; che ai Sinodi vescovili chiedesse di parlare anche agli ospiti di altre religioni, anche questa una novità. Con Benedetto XVI per la prima volta l'uomo al vertice ha preso parte al dibattito, senza parlare dall'alto verso il basso, bensì introducendo quella collegialità per la quale si era battuto nel Concilio. Correggetemi, diceva, quando presentava il suo libro su Gesù che non voleva annunciare come un dogma o apporvi il sigillo della massima autorità. L'abolizione del baciamano è stata la più difficile da attuare. Una volta ha preso per un braccio un ex studente che si inchinava per baciare l'anello, dicendogli: "Comportiamoci normalmente". Tante prime volte. Per la prima volta un Papa visita una sinagoga tedesca (e successivamente più sinagoghe nel mondo di tutti i Papi prima di lui messi assieme). Per la prima volta un Papa visita il monastero di Martin Lutero, un atto storico senza eguali. Ratzinger è un uomo della tradizione, si affida volentieri a ciò che è consolidato, ma sa distinguere quello che è davvero eterno da quello che è valido solo per l'epoca da cui è emerso. E se necessario, come nel caso della Messa tridentina, aggiunge il vecchio al nuovo, poiché insieme non riducono lo spazio liturgico, bensì lo ampliano. Non ha fatto tutto giusto, ma ha ammesso gli errori, anche quelli (come lo scandalo Williamson) di cui non aveva alcuna responsabilità. Di nessun fallimento ha sofferto di più che di quello dei suoi preti, anche se da prefetto aveva già avviato tutte le misure che consentivano di scoprire i terribili abusi e punire i colpevoli. Benedetto XVI se ne va, ma la sua eredità resta. Il successore di questo umilissimo Papa dell'era moderna seguirà le sue orme. Sarà uno con un altro carisma, un proprio stile, ma con la stessa missione: non incentivare le forze centrifughe, ma coloro che tengono insieme il patrimonio della fede, che restano coraggiosi, annunciano un messaggio e fanno una testimonianza autentica. Non è un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia. Vedete, vuole dimostrare, era qui che vi volevo portare fin dall'inizio, questa è la via. Disintossicatevi, rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del tempo, non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è il programma della Chiesa del futuro. Privarsi del grasso per guadagnare vitalità, freschezza spirituale, non da ultimo ispirazione e fascino. E bellezza, attrattiva, in fondo anche forza, per far fronte a un compito diventato tanto difficile. "Convertitevi", così disse con le parole della Bibbia quando segnò la fronte di cardinali e abati con la cenere, "e credete al Vangelo". "Lei è la fine del vecchio - chiesi al Papa nel nostro ultimo incontro - o l'inizio del nuovo?". La sua risposta fu: "Entrambi".

Corriere della Sera

Benedetto XVI nomina delegato pontificio della Congregazione dei Figli dell'Immacolata Concezione il card. Versaldi, dovrà indirizzare le sue strutture sanitarie verso un possibile risanamento economico, escludendo la partecipazione della Santa Sede

A seguito della visita apostolica effettuata da mons. Filippo Iannone alla Congregazione dei Figli dell'Immacolata Concezione, il Papa ha deciso, il 15 febbraio scorso, di affidare il governo di questo Istituto religioso al card. Giuseppe Versaldi (nella foto con Benedetto XVI), presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, nominandolo delegato pontificio. In tale veste, riferisce la Sala Stampa vaticana, il card. Versaldi avrà il compito "di guidare l'Istituto religioso e di indirizzare le strutture sanitarie da esso gestite verso un possibile risanamento economico, escludendo tuttavia una partecipazione della Santa Sede in tali opere".

Radio Vaticana

COMUNICATO DELLA SALA STAMPA DELLA SANTA SEDE

Lettera di mons. Müller in cui si chiede alla Fraternità San Pio X di rispondere positivamente all'accordo proposto dalla Santa Sede entro il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro. In caso di mancata risposta verrà chiesto ai sacerdoti di rientrare in comunione singolarmente

Lefebvriani ultimo atto e ultimo tentativo. La Santa Sede chiede alla Fraternità San Pio X di accettare l'accordo proposto da Roma entro il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, e dunque prima che la rinuncia di Benedetto XVI diventi operativa. Dopo la lettera "personale" e spiritualmente molto alta inviata lo scorso dicembre ai lefebvriani dall'arcivescovo statunitense Augustin Di Noia, una nuova missiva datata 8 gennaio ha raggiunto il superiore della Fraternità, il vescovo Bernard Fellay. Non sarebbe corretto presentarla come un vero e proprio "ultimatum", ma certo il documento - firmato dall'arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e presidente della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", pone per la prima volta ai lefebvriani dei termini temporali. Che alla luce della clamorosa rinuncia di Benedetto XVI finiscono per assumere una particolare drammaticità. L'esistenza della lettera è stata confermata dall'abbé Claude Barthe, interprete attento dei rapporti tra Roma e il tradizionalismo, in un'intervista apparsa su Présent lo scorso 16 febbraio: "Tutti sanno ormai che la Commissione 'Ecclesia Dei' ha inviato una lettera al vescovo Fellay l’8 gennaio e che si aspetta una risposta da lui il 22 febbraio, il giorno della festa della Cattedra di San Pietro. In questo giorno, 22 febbraio, potrebbe essere datata la costituzione della prelatura San Pio X. Questo rappresenterebbe la vera conclusione del Pontificato di Benedetto XVI: la riabilitazione di mons. Lefebvre. Potete immaginare che rombo di tuono e anche, indirettamente, quale peso nell’orientamento degli eventi di marzo", cioè del conclave. Secondo l'abbé Barthe, i giochi non sarebbero dunque chiusi. Anche se appare oggettivamente difficile che i lefebvriani accettino di sottoscrivere il "preambolo dottrinale" che la Santa Sede ha consegnato loro nel giugno scorso. Secondo il quotidiano cattolico francese La Croix, in caso di mancata risposta entro il 22 febbraio, Roma si riserva il diritto di rivolgersi a ciascuno dei preti della Fraternità San Pio X, con un appello diretto, senza passare per il loro superiore Fellay. Invitandoli a rientrare singolarmente nella comunione con Roma. Le prime reazioni del clero lefebvriano sembrano però piuttosto compatte e allineate con il superiore. La rinuncia del Papa porterà a un'accelerazione dei tempi? Difficile dirlo. Di certo una congiuntura così favorevole, con un Pontefice così ben disposto, sarà difficilmente ripetibile in futuro. E in caso di rifiuto la Santa Sede, in questo caso il nuovo Papa, dovrà decidere il da farsi.
 
Andrea Tornielli, Vatican Insider