martedì 14 agosto 2012

La coraggiosa solitudine di Benedetto. Un Papa reso indifeso dalla sua stessa 'pietas' umana, dal suo rispetto verso gli altri, chiunque essi siano

"Preciso che vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, sono arrivato negli ultimi tempi, quelli della degenerazione, ad un punto di non ritorno, essendomi venuti meno i freni inibitori. Ero sicuro che uno shock, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario. Inoltre nei miei interessi c’è sempre stato quello per l’intelligence, in qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera un infiltrato". Le parole di Paolo Gabriele, messe a verbale, fanno piombare l’incredulo lettore del documento di rinvio a giudizio. Solo il romanziere americano poteva pensare, infatti, che un cameriere del Papa potesse sentirsi un "infiltrato dello Spirito Santo", e il lettore un po’ avveduto avrebbe pensato che, nella realtà, un simile abbaglio non sarebbe mai potuto avvenire perché certo la scelta della persona che doveva stare così vicino al pontefice non sarebbe mai caduta su un personaggio tanto instabile e tendente al fanatismo. Invece no: la realtà batte Dan Brown. E la perizia psichiatrica che lo dichiara inadatto a svolgere il compito a cui era stato preposto sembra smentita dai giudizi degli altri collaboratori vicini al Papa, che lo descrivono soprattutto come un buon padre di famiglia, se pure un po’ lento a capire e ad eseguire. Dalle descrizioni che emergono dagli interrogatori, largamente riportati nel documento, la "famiglia pontificia" viene fuori come una famiglia vera, in cui le persone che ne fanno parte si accettano con carità, perdonandosi le debolezze e le incapacità, e non come un luogo dove l’efficienza e il servizio ben fatto devono prevalere su tutto. Un luogo, come appunto avviene in famiglia, dove ciascuno si vergogna di sospettare degli altri, e cerca di giustificarli, ben conoscendo i loro limiti umani. Se non fosse stato così, un cameriere come Gabriele non avrebbe certo potuto ricoprire quel compito a lungo: alla lentezza nell’eseguire i suoi compiti, infatti, si accompagnavano, emerge dal documento, un’abitudine alla chiacchiera esagerata e il bisogno di conquistare l’attenzione di interlocutori anche importanti fornendo loro notizie sulla vita privata del Papa. Dagli interrogatori si delinea l’immagine di un pessimo cameriere, che chiunque avrebbe rapidamente sostituito, ma che qui si sopportava in nome della sua dichiarata devozione e del suo ruolo di padre di famiglia. Oltre naturalmente all’affetto che era nato in anni di collaborazione quotidiana. Certo, le stanze del Papa risultano ben diverse da quelle dei potenti della terra, dove alla pietà verso le debolezze umane e all’indulgenza verso le inadempienze si preferiscono ferrei controlli ed efficienza assoluta. Anche se dispiace molto che il cameriere sia arrivato a compiere quei gravi furti, e anche se si può pensare che forse qualcuno avrebbe potuto tenerlo d’occhio e accorgersene prima, non è certo una sorpresa sgradevole scoprire che intorno al pontefice i rapporti si annodino e si consolidino in base a categorie ben diverse da quelle dei potenti. E venire a sapere che il Papa sopporta con carità i difetti degli altri. Con il furto di documenti riservati, però, si è andati veramente oltre: il cameriere chiacchierone e incapace è diventato un ladro in grado di danneggiare la Chiesa. E a questo punto la scelta di Benedetto XVI è una scelta di giustizia e di verità: andare a fondo dell’inchiesta e renderla pubblica, invece di coprire le magagne sotto il tappeto per mantenere un’immagine meno negativa del Vaticano. Perché il Papa sa bene che l’immagine sana della Santa Sede può essere salvata solo dalla verità, anche se al momento proprio la verità sembra offuscare questa immagine. La lettura dei documenti fa emergere in modo netto e drammatico la solitudine del Pontefice, che tutti possono immaginare, ma che si staglia netta come non mai attraverso questa fotografia della sua vita quotidiana vista dalle "stanze della servitù", come in una sorta di Downtown Abbey vaticana. Un Papa reso indifeso dalla sua stessa "pietas" umana, dal suo rispetto verso gli altri, chiunque essi siano. Ma avremmo forse preferito un Benedetto XVI che controlla dove è finita la pepita d’oro inviatagli da un fedele, e che magari licenzia il cameriere tardo e distratto? No di certo, preferiamo un Papa che sta al di sopra di tutto questo, e che accetta con coraggio la propria solitudine, muovendosi solo quando la verità diventa condizione fondamentale per una purificazione della Chiesa. Forse, dal proseguimento delle indagini verranno fuori altre sgradevoli sorprese, i nomi secretati lo farebbero pensare ma quello che conta, per i cattolici, non è la corruzione in Vaticano, ma la via d’uscita che ha scelto Benedetto XVI.

Lucetta Scaraffia, Il Messaggero

Cosa nasconde il tedesco del professor Ratzinger? Nei discorsi e scritti quanto per primo sperimenta e comprende desidera poi trasformarlo in dono

Come accade per ogni vero maestro, i discorsi o scritti più importanti di Papa Benedetto XVI sono l’espressione dell’uomo Joseph Ratzinger. Quanto egli per primo sperimenta e comprende, egli desidera poi trasformarlo in dono, tutto teso a comunicare un bene al destinatario, facendolo partecipe di un cammino conoscitivo per approfondire l’incontro con la persona di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Egli stesso nell’introduzione al I volume "Jesus von Nazareth" (2007) sottolinea l’intento da cui nasce il libro: esso non vuole essere "un atto magisteriale", bensì "unicamente espressione della mia ricerca personale del 'volto del Signore'", e questo perché al testo egli giunge "dopo un lungo cammino interiore". A un simile personale cammino di incontro con la persona di Gesù, Papa Ratzinger desidera portare ogni interlocutore che gli dimostri un “anticipo di simpatia”. Ma come egli conquista il singolo interlocutore? Con quali espedienti stilistici e linguistici lo coinvolge nel suo personale cammino di conoscenza? Leggere i suoi testi in lingua originale è davvero un’esperienza che diviene ancor più piacevole e stimolante per chiunque abbia il desiderio di imparare o insegnare il tedesco a partire dalla sua forma linguistica e stilistica migliore: veramente ampia sarebbe la scelta da cui trarre validi esempi. A livello lessicale i testi sono spesso ricchi di derivati, ovvero di quelle forme di parola la cui costruzione deriva da un’altra più semplice, e quindi spesso facilmente riconoscibile (Erneuerung da neu, “nuovo”). Nel libro "Licht der Welt", ad esempio, in una risposta spicca il verbo di derivazione latina 'extrapolieren', sinonimo dei ben più “tedeschi” termini 'herausziehen', 'herausbekommen', 'herausfinden'…, come poco più avanti colpisce un enunciato i cui unici quattro sostantivi sono quattro derivati uno in fila all’altro. L’analisi di una tale ricchezza può pertanto facilmente stimolare il gioco linguistico di riconoscimento o di formazione di nuovi termini da parte degli studenti. Se dunque da una parte le frasi dimostrano un linguaggio sempre molto preciso e perfettamente corretto, ma semplice nella scelta dei termini, dall’altra Joseph Ratzinger non perde mai l’occasione di coinvolgere l’interlocutore con l’uso di esempi e attraverso l’uso di una o più domande.Osservando uno dei più noti discorsi degli ultimi mesi, quello al Bundestag tedesco (settembre 2011), si resta affascinati dalla chiara e semplice modalità con la quale Benedetto XVI ha voluto accompagnare fin dalle prime battute i suoi non altrettanto semplici interlocutori al cuore della questione: la richiesta del Re Salomone di ricevere da Dio un cuore docile per saper distinguere il bene dal male è e resta la questione decisiva per ogni uomo politico. Attraverso un continuo simulato interloquire con i membri del Bundestag, ricco di interrogativi e di chiare immediate risposte, egli porta i suoi ascoltatori quasi per mano dal primo passo all’ultimo ad approfondire il nucleo del suo messaggio. Su sei interrogativi, formulati per definire in modo evidente i passaggi centrali del discorso, cinque sono costituiti da almeno due domande (che diventano quattro in uno degli ultimi paragrafi) e solo uno è costituito da una singola domanda: questa però non è altro che la sintesi delle domande formulate nel paragrafo precedente! Si incontra così un’altra delle affascinanti caratteristiche del linguaggio “ratzingeriano”: da vero maestro, intento solo a portare il discente a comprendere pienamente, Papa Ratzinger non ha paura di riprendere lo stesso termine nelle frasi successive. Numerose sono le ripetizioni di uno stesso termine in forme più o meno simili, cosa che chiunque cercherebbe di evitare, scovando chissà quali altri termini fra ostici o incomprensibili neologismi, pur di evitare l’onta di una ripetizione. Nel capitolo dedicato alle parabole nel già citato testo "Jesus von Nazareth", ad esempio, Joseph Ratzinger ripete l’avverbio 'von innen her' (letteralmente “dal di dentro”) per tre volte in poche righe, cosa che il traduttore italiano non osa fare. L’importanza della tripla ripetizione dello stesso avverbio, invece, si coglie nella funzione che esso deve avere per l’autore. Nel passaggio in cui esso compare il messaggio sembra infatti divenire un chiaro e fermo invito al lettore a prendere coscienza “dall’intimo del proprio animo” della validità della tesi proposta. Tale invito, inteso come libera risposta personale, diviene nel lettore “compito”, ovvero responsabilità di verificare in prima persona la promessa, in questo caso l’auspicata immedesimazione con il protagonista della parabola, valutando e sperimentando personalmente quanto descritto.Per nulla difficile risulta pertanto la lettura dei testi di Joseph Ratzinger nella loro lingua originale, esempio del miglior tedesco degli ultimi tempi. Non altrettanto semplice, invece, risulta sottrarsi all’immedesimazione, nella quale l’uomo Ratzinger, che in tali testi sempre si palesa, desidera coinvolgerci. La sfida resta sempre aperta con lui, ma coloro che la colgono imparano molto e molto hanno sempre da scoprire.

Lucia Salvato, Il Sussidiario.net

Memoria di San Massimiliano Kolbe. Il Magistero del Papa: nel martirio risplende il fulgore dell’Amore che vince le tenebre dell’egoismo e dell’odio

Oggi la Chiesa celebra la memoria di San Massimiliano Kolbe, sacerdote francescano polacco morto nel lager nazista di Auschwitz per salvare un padre di famiglia. Il Papa lo ha definito una “luce” che “ha incoraggiato altri a donarsi” per essere vicini ai sofferenti e agli oppressi. Vincere il male con il bene, l’odio con l’amore: è ciò che ci ricorda il Vangelo odierno dedicato al “comandamento nuovo” di Gesù: “amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati”. Parole che padre Kolbe ha vissuto fino in fondo e che, come dice il Papa, invitano tutti noi a seguire l’amore senza misura del nostro Signore: “Quelle parole di Gesù, ‘come io vi ho amati’, ci invitano e insieme ci inquietano; sono una meta cristologica che può apparire irraggiungibile, ma al tempo stesso sono uno stimolo che non ci permette di adagiarci su quanto abbiamo potuto realizzare” (9 agosto 2006).
L’amore verso Gesù passa attraverso il sì di Maria. E padre Kolbe, sacerdote mariano nel suo dna, ha continuato a dare speranza e consolazione a quanti erano con lui nel bunker della fame di Auschwitz, totalmente affidato alla Madre di Dio fino alla fine. Era il 14 agosto 1941: “'Ave Maria!': fu l’ultima invocazione sulle labbra di San Massimiliano Maria Kolbe mentre porgeva il braccio a colui che lo uccideva con un’iniezione di acido fenico. È commovente costatare come il ricorso umile e fiducioso alla Madonna sia sempre sorgente di coraggio e di serenità” (13 agosto 2008).
I martiri non si scoraggiano nel fare il bene anche quando il male sembra distruggere tutto: “Apparentemente le loro esistenze potrebbero essere ritenute una sconfitta, ma proprio nel loro martirio risplende il fulgore dell’Amore che vince le tenebre dell’egoismo e dell’odio. A San Massimiliano Kolbe vengono attribuite le seguenti parole che egli avrebbe pronunciato nel pieno furore della persecuzione nazista: ‘L’odio non è una forza creativa: lo è solo l’amore’” (13 agosto 2008)

Radio Vaticana

Lombardi: la pubblicazione della sentenza e della requisitoria passo concreto per affrontare i problemi con rigore e trasparenza, senza scorciatoie

"La sentenza di rinvio a giudizio rappresenta un altro passo verso la trasparenza": lo afferma il direttore della Sala Stampa vaticana, Federico Lombardi (nella foto con Benedetto XVI), in merito alla fine dell'istruttoria a carico di Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa. La sentenza di ieri, sottolinea il gesuita su Radio Vaticana, "non rappresenta certo l'esito finale delle indagini e delle riflessioni su che cosa questa vicenda significa e in quale contesto è maturata. Si riferisce infatti ad un reato specifico e a due persone (una direttamente responsabile e una solo molto indirettamente coinvolta), e non a un complesso più articolato di eventi e relazioni su cui la stessa magistratura e una commissione cardinalizia sono state chiamate a indagare, con competenze specifiche e prospettive diverse. Tuttavia la pubblicazione della sentenza e della requisitoria che l'ha preceduta non vanno sottovalutate, perché sono un passo concreto, compiuto con strumenti e metodi giuridici specifici, per affrontare i problemi con rigore e trasparenza, senza scorciatoie o coperture per quanto benintenzionate. Una pubblicazione ampia e completa come quella di questa mattina, con la sola riserva dei nomi e cognomi di persone da tutelare, è un atto coraggioso e finora piuttosto insolito nelle usanze vaticane. La decisione del Papa di incoraggiare il lavoro della magistratura ha un suo valore significativo, di rispetto scrupoloso per la competenza e l'autonomia di questa istituzione, e di fiducia nel contributo che può dare nel difficile e faticoso cammino per cercare la verità e stabilire la giustizia con strumenti umani. Forse l'avvicinamento è ardito, ma ci viene da pensare che come il confronto con le istituzioni esterne di Moneyval aiuta certamente a crescere nella direzione della trasparenza economica e finanziaria, così il maggiore riconoscimento del ruolo della magistratura può aiutare oggi a crescere nella direzione della trasparenza e della coerenza nel campo della comunicazione e della discussione di altre questioni non strettamente ecclesiastiche. Il contributo della magistratura non basta dunque per affrontare l'intera gamma dei problemi, ma è serio e impegnativo, e può far riflettere sotto una nuova angolatura sulla serietà delle questioni della fedeltà alle istituzioni che si servono, del valore della fiducia e della comunicazione confidenziale, della solidarietà e della responsabilità dell'unione nel servizio delle istituzioni. Anche questa è una prospettiva in cui si può leggere la linea assunta consapevolmente dal Santo Padre nello stabilire tempi e modi per guidare i suoi collaboratori con lungimiranza - conclude Lombardi - in un servizio della Chiesa sempre più efficace ed evangelico".

TMNews

Padre Lombardi: indagini in Vaticano, metodo della trasparenza e del rigore

In Vaticano personaggi meno limpidi hanno lavorato per minimizzare, sedare, addossare tutte le colpe al maggiordomo, depennare altri coinvolgimenti

Ha fatto tutto lui, o quasi. Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa rinviato ieri a giudizio per la fuga di documenti riservati della Santa Sede (Vatileaks), ha frugato nelle carte di Benedetto XVI, le ha fotocopiate, le ha nascoste a casa (anche nella playstation del figlio, vuole la leggenda), poi ha trovato su internet il numero di telefono di Gianluigi Nuzzi, lo è andato a trovare e gli ha passato il materiale. Ne è uscito un bestseller, "Sua Santità", che ha spinto la Santa Sede sull’orlo di una crisi di nervi. Un mostruoso ambaradan scaturito dall’intraprendenza di un semplice maggiordomo. Chiariamolo subito a scanso di equivoci: stiamo scherzando. Non vogliamo credere che la verità sia tutta qui, fosse anche soltanto la verità giudiziaria. Del resto, lo ha precisato lo stesso Vaticano. Il Papa in persona ha invitato magistrati e cardinali della commissione ad hoc a procedere “con solerzia”. Nella requisitoria pubblicata ieri il promotore di giustizia Nicola Picardi ha scritto, nero su bianco, che le indagini “non hanno ancora portato piena luce su tutte le articolate e intricate vicende che costituiscono l’oggetto complesso di questa istruzione”. Il giudice Piero Antonio Bonnet ha sottolineato che l’istruttoria è chiusa “limitatamente al solo reato di furto aggravato” mentre resta “aperta” per tutto il resto, a partire dal nodo della divulgazione delle carte fotocopiate proditoriamente, dei complici del maggiordomo e del movente che lo ha spinto a lavare i panni sporchi in pubblico. E il portavoce vaticano Federico Lombardi ha puntualizzato che la sentenza ha marcato sì una tappa di trasparenza, analoga a quella compiuta, in tutt’altro ambito, con l’esame delle finanze vaticane compiuto da Moneyval, ma “non rappresenta certo l’esito finale delle indagini e delle riflessioni su che cosa questa vicenda significa e in quale contesto è maturata”. I galantuomini in Vaticano non mancano. Ma accanto a loro si muovono, spesso nell’ombra, personaggi meno limpidi. Che in tutti questi mesi, da quando Paolo Gabriele è stato arrestato il 24 maggio scorso, hanno lavorato per minimizzare, sedare, addossare tutte le colpe al maggiordomo del Papa, depennare altri coinvolgimenti, stornare l’attenzione dai problemi soggiacenti. Come se il caso Vatileaks non avesse mostrato, al di là della personale vicenda di “Paoletto”, un problema di governance della Curia romana. Come se Benedetto XVI non avesse incontrato, sulla scia di Vatileaks, cardinali e arcivescovi dei più diversi angoli del mondo per raccogliere opinioni sul superamento di una crisi di sistema. Come se il maggiordomo del Papa non avesse raccolto, pur travisandolo in un delirio donchisciottesco, un sentimento di accerchiamento diffuso, e non da oggi, nel Palazzo Apostolico. E come se avesse potuto fare tutto da solo, senza suggeritori occulti e fomentatori invidiosi, complici opportunisti e mandanti morali. E allora sì, fa sorridere scorrere le pagine dei dispositivi giudiziari pubblicati ieri dal Vaticano; leggere che l’assistente di camera del Pontefice si considerava, versione teologica degli 007, un “infiltrato” dello Spirito Santo nella Chiesa; che si è sventatamente spinto a farsi intervistare, criptato sì ma riconoscibile a chi lo conosceva, dalla trasmissione "Gli intoccabili" di Gianluigi Nuzzi su La 7 (ma non disse in quell’occasione che aveva “una ventina” di complici? E gli altri 19 che fine hanno fatto? E a Il Fatto Quotidiano, che per primo pubblicò alcuni dei documenti incriminati, chi li portò?); che una delle due perizie psichiatriche che gli sono state fatte sancisce che “il sig. Gabriele si caratterizza per una intelligenza semplice in una personalità fragile con derive paranoidi a copertura di una profonda insicurezza personale e di un bisogno irrisolto di godere della considerazione e dell’affetto degli altri” condito con “sentimenti di colpa e senso di grandiosità, connessi ad un desiderio di agire a favore di un personale ideale di giustizia” (ah, l’altra perizia sostiene tutt’altro); che a casa sua sono stati rinvenuti un assegno di 100mila euro intestato al Papa (che nessuno può riscuotere, se non, appunto, il Papa), una preziosa traduzione dell'Eneide di Annibal Caro del 1581, e financo una pepita d’oro proveniente dall’appartamento pontificio. Fa sorridere, ma fino a un certo punto. Perché sotto sotto, ma neanche tanto, qualche malintenzionato potrebbe concludere che è tutta colpa di quel picchiatello del maggiordomo. E allora, “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce 'o ppassato…”.

Iacopo Scaramuzzi, Linkiesta


Il maggiordomo del Papa a processo. Ma le indagini si allargano "in più direzioni"