venerdì 15 ottobre 2010

Ottava Congregazione generale. Uniti in una terra ferita. L'urgenza del dialogo ecumenico e dell'unità e l'impegno dei vescovi italiani

Venerdì 15 ottobre, al Sinodo, è stata la volta dei delegati fraterni, i cui interventi hanno rimarcato l’urgenza del dialogo ecumenico e dell’unità, in vista di una più vera ed efficace testimonianza, senza dimenticare di mettere in evidenza il grave problema dell’emigrazione cristiana dalla Regione. Subito dopo sono riprese le relazioni dei padri sinodali. Il vescovo di Alep e primate degli Armeni in Siria, Shahan Sarkissian, ha messo in evidenza alcune priorità: “Dovremmo manifestare più concretamente e più chiaramente l’unità delle Chiese che costituisce oggi più che mai un imperativo per il Medio Oriente. Nel rispetto delle differenze ecclesiologiche, le Chiese devono sempre essere insieme, programmare insieme e operare insieme”. Il secondo punto riguarda “il rispetto e la comprensione reciproci che costituiscono le basi del dialogo e della convivenza islamo-cristiana. Occorre approfondire la convivenza con l’Islam pur rimanendo fedeli alla propria missione e alla propria identità cristiana”. Terzo aspetto è “rilanciare e promuovere l’educazione cristiana, il rinnovamento spirituale e la diakonia, l’evangelizzazione interna e la trasmissione dei valori cristiani ai giovani, la partecipazione attiva dei laici”. Infine, il primate armeno, ha sottolineato “l’importanza della cooperazione ecumenica istituzionale nonché del dialogo teologico bilaterale. La riforma e la riorganizzazione del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente costituiscono oggi una priorità maggiore rispetto a quella a cui sono già votate le Chiese membri”. Anche il vescovo di Exeter, Michael Langrish (Regno Unito), rappresentante anglicano, si è detto preoccupato per “l’emigrazione dei cristiani in molte regioni del Medio Oriente e per le circostanze che rendono difficile la loro permanenza e il loro prosperare”. “Su questa situazione – ha detto – c’è troppa ignoranza tra i cristiani dell’Occidente. Gli anglicani cercano di fare la loro parte, insieme alle Chiese storiche del Medio Oriente, per aumentare la consapevolezza dei governi e dei media, come pure dei loro stessi membri. Cerchiamo di operare insieme in un impegno profetico con le scritture, sicuri della speranza e della verità del Verbo incarnato di Dio”. “Adesso è il momento di agire insieme – ha affermato Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) – per noi cristiani ciò deve fondarsi su tre imperativi fondamentali: un imperativo etico e teologico per una pace giusta, un imperativo ecumenico per l’unità nell’azione e l’imperativo del Vangelo per una ricca solidarietà e amore per il nostro prossimo. Operiamo insieme e uniamoci nel nostro sincero appello ai governi interessati della regione e del mondo affinché una pace giusta, autentica e duratura regni nell’intera regione. Preghiamo e operiamo insieme affinché i cristiani in Medio Oriente continuino a essere il ‘sale della terra e la luce del mondo’. Accompagniamo le Chiese della regione nel loro compito di trasformare la società”. Tra gli interventi dei Padri Sinodali del 15 ottobre si è registrato quello del rappresentante dei vescovi italiani, mons. Riccardo Fontana, arcivescovo di Arezzo-Cortona-San Sepolcro, che ha esordito affermando che “nei soli primi sei mesi del 2010 sono partiti 1.600.000 pellegrini diretti in Palestina”. “È più quanto riceviamo in termini di vita spirituale e di ricerca di fede a favore dei nostri pellegrini, di quanto si riesce a dare con la nostra solidarietà”, ha affermato mons. Fontana, che ha messo in evidenza come “nella Chiesa italiana trovi una grande attenzione la condizione di vera sofferenza del popolo palestinese e di quella porzione silenziosa di ebrei israeliani che non accettano, in nome della sicurezza, le situazioni discriminatorie che scatenano terrorismo e violenza”. “L'assoluta povertà dei cristiani di Terra Santa e del Medio Oriente – ha proseguito – ha fatto nascere in Italia un sempre più ampio numero di progetti caritativi. Solo nei primi 5 anni del millennio, la Cei ha finanziato progetti nell'area per oltre 25 milioni di euro. Ad essi vanno aggiunti quelli degli Istituti religiosi e delle singole diocesi”. Ma non basta. Per l’arcivescovo, “c'è bisogno di fare di più. Ci viene spesso ripetuto che gran parte delle decisioni che potrebbero aiutare le Chiese del Medio Oriente sono prese in Occidente. La Santa Sede con i suoi canali diplomatici, noi vescovi, potremmo far presente ai rispettivi governi che Gerusalemme e le cristianità del Medio Oriente sono tra le priorità irrinunciabili per tutti i cristiani. Far conoscere è il primo passo per trovare soluzioni”.

SIR

Mons. Twal: la presenza dei cristiani in Terra Santa una missione e una vocazione. Bisogna far maturare i frutti del Sinodo con tempo e pazienza

“La presenza dei cristiani a Terra Santa non è qualsiasi presenza”, ha detto questo pomeriggio Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme. Una presenza che debe essere in primo luogo “la testimonianza di un evento salvifico e tutta la vita di Gesù”, ha affermato il presule. Il Patriarca, nato in Giordania 70 anni fa, ha partecipato a un incontro con i giornalisti nella Sala Stampa della Santa Sede, nel contesto del Sinodo per il Medio Oriente. Il Patriarcato latino di Gerusalemme estende la sua giurisdizione ai fedeli di rito latino presenti in Israele, Giordania, Cipro e l'Autorità Nazionale Palestinese. Ha 65 parrocchie e 77.000 fedeli. Per Sua Beatitudine Twal, il tema dei cristiani in Terra Santa, che rappresentano solo il 3% della popolazione, dev'essere un centro di attenzione per la Chiesa universale, perché si tratta “dei discendenti della prima comunità formata da Gesù Cristo stesso”. Il Patriarca di Gerusalemme ha chiamato la comunità cristiana di Terra Santa “La Chiesa del Calvario”, e ha detto che la presenza dei cristiani in Terra Santa “è una missione, è una vocazione”, e che Dio li chiama in modo particolare a “portare questa croce”. “Ogni missione nella vita dell'uomo comporta sacrificio”, ha detto il Patriarca. Di fronte a una domanda formulata dall'agenzia Zenit sul ruolo della donna nella missione apostolica della Terra Santa, ha ammesso: “Senza la donna non possiamo neanche camminare”. Attualmente in quella zona ci sono 73 comunità religiose femminili, che per il Patriarca rappresentano “un tesoro”. Vari interventi sinodali si sono riferiti al dramma dell'occupazione israeliana, che per il Patriarca “è odiosa, fa male a israeliani e palestinesi”: “l’occupante ha paura dell’occupato e quest’ultimo non fa che alimentare l’odio nell’attesa di trovare il momento per liberarsi e vendicarsi”. “Se due Stati non sono possibili, anche a causa delle colonie israeliane”, ha detto, “io sono disposto con i leader palestinesi ad accettare uno Stato solo dove i palestinesi abbiano diritto al voto”. “Questa è la sfida, più che la creazione di due Stati”, ha segnalato. “Ci sono generazioni di palestinesi e di israeliani nati e cresciuti sotto l’occupazione”, ha proseguito il Patriarca. “Che generazioni stiamo formando? Abbiamo famiglie che vivono nella serenità o nell’odio?”. Quanto al tema del muro israeliano, ha detto che “non è un fattore di sicurezza”, quanto piuttosto un “segno tangibile di un altro muro, quello della paura e dell’ignoranza”. Necessità di educare al dialogo Il Patriarca latino di Gerusalemme ha detto di aver partecipato lo scorso anno a una commissione in cui sono stati studiati i libri di religione in uso nelle scuole locali, e ha lamentato che "le istituzioni scolastiche non hanno voluto prendere in considerazione i nostri libri cristiani". "Così facendo non si arriva ad una cultura di pace”, ha avvertito. Mons. Twal ha poi ricordato il consiglio per la situazione interreligiosa presente a Gerusalemme, composto da capi religiosi cristiani, musulmani ed ebrei. Ogni sei mesi c'è un incontro con tutti i ministri all'interno dei Paesi arabi per studiare insieme il modo per fermare il fondamentalismo religioso che non permette il dialogo. Relativamente al Sinodo, il Patriarca ha ammesso di non aspettarsi “miracoli del giorno dopo”, e che saranno necessari “tempo e pazienza per non accontentarci solo dell’evento, ma per apprezzarne i contenuti e soprattutto le parole e le esortazioni che Benedetto XVI vorrà rivolgerci”. “Abbiamo seminato e bisogna dare il tempo alla Provvidenza di far maturare i frutti del Sinodo”, ha detto. Il Patriarca ha quindi concluso la sua conversazione con i giornalisti condividendo un aneddoto relativo alla celebrazione dell'Anno Nuovo. Mentre era riunito con il Presidente israeliano Shimon Peres, “c'erano 12 ragazzi dai 10 ai 13 anni che hanno cantato in ebraico, arabo e inglese. 4 ebrei, 4 islamici, 4 cristiani, con le uniformi della scuola”. “E io dicevo a Peres: 'Qual è il cristiano, il musulmano e l'ebreo?'”, al che Peres non ha saputo rispondere. “Se questi piccoli possono giocare insieme e non c’è nessuna differenza tra di loro, perché noi non lo facciamo?”, si è chiesto. Alla fine del Sinodo, Fouad Twal si recherà in alcuni Paesi latinoamericani per visitare le comunità della diaspora e favorire così la comunione con i cristiani di Terra Santa.

Carmen Elena Villa, Zenit

Mons. Franceschini: quello di mons. Padovese un omicidio premeditato. Un'attenzione particolare merita la gente di Turchia e chi ha versato il sangue

Ai lavori del Sinodo, ieri pomeriggio, durante la settima Congregazione generale è risuonata alta la voce di mons. Ruggero Franceschini, presidente della Conferenza Episcopale turca e amministratore apostolico del Vicariato di Anatolia, retto fino al momento del suo omicidio, lo scorso 3 giugno, da mons. Luigi Padovese (nella foto con Benedetto XVI). A questo riguardo, ha detto mons. Franceschini “voglio cancellare le insopportabili calunnie fatte circolare dagli stessi organizzatori del delitto. Perché di questo si tratta: omicidio premeditato, dagli stessi poteri occulti che il povero Luigi aveva, pochi mesi prima, indicato come responsabili dell'assassinio di don Andrea Santoro, del giornalista armeno Dink e dei quattro protestanti di Malatya; cioè un’oscura trama di complicità tra ultranazionalisti e fanatici religiosi, esperti in strategia della tensione”. “La situazione pastorale e amministrativa del Vicariato dell' Anatolia è grave – ha lamentato il presidente dei vescovi turchi - I motivi sono le divisioni all'interno della comunità cristiana, già fragile di per sé; la gestione dell’economia di tutto il Vicariato e la gravissima scarsità di personale missionario”. “Alla Chiesa chiediamo quello che ora ci manca: un Pastore, qualcuno che lo aiuti, i mezzi per farlo, e tutto questo con ragionevole urgenza. Siamo una Chiesa antichissima, tanto povera quanto ricca di una tradizione che solo Gerusalemme e Roma possono vantare. Non cominceremo certo adesso a lamentarci o piangere miseria, non è nostro uso, e lungi da noi anche solo il pensiero di rivendicare un'attenzione particolare per via dell'uccisione del Presidente della nostra Conferenza Episcopale; ma certo – ha concluso il religioso - un'attenzione particolare merita la nostra gente e chi ha versato il sangue. Perdonate lo sfogo: vi preghiamo di condividere con noi questa situazione che può essere superata, a breve, almeno in due aspetti: la nomina di un nuovo pastore e un sostegno economico”.

SIR

Il Papa: ognuno deve dare priorità all'importante obiettivo per la famiglia umana, la libertà dalla fame, attraverso consistenti livello di aiuto

I Paesi ricchi debbono rendersi conto che se non aumentano l’aiuto per le nazioni povere, la crisi alimentare non sarà risolta. La solidarietà è “carente”, mentre “servono concrete inziative” perché tutti possano quotidianamente esercitare il diritto di avere cibo e acqua. “Nella pressione della globalizzazione e sotto l’influenza di interessi che restano sempre particolari”, invece, “troppo spesso l'attenzione viene deviata dai bisogni delle popolazioni, insufficiente è l’accento posto sul lavoro nei campi, i prodotti della terra non godono di tutela adeguata. Di conseguenza si produce squilibrio economico e i diritti inalienabili e la dignità di ogni persona umana vengono ignorati”. La fame e la sete di “tanti fratelli” sono al centro del Messaggio, indirizzato al direttore generale della Fao Jacques Diouf (nella foto con Benedetto XVI), per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, che si celebra domani. Citando il motto della Giornata, “uniti contro la fame”, il Papa scrive che se la comunità internazionale “vuole davvero essere unita”, la povertà deve essere superata attraverso un autentico sviluppo umano, basato sull'idea di persona come unità di corpo, anima e spirito. “Ognuno – dagli individui alle organizzazioni della società civile, Stati e organizzazioni internazionali – deve dare priorità a uno dei più urgenti obiettivi della famiglia umana: la libertà dalla fame”. La lotta alla fame va combattuta attraverso iniziative concrete “informate dalla carità, e ispirate dalla verità”, “che siano in grado di superare gli ostacoli naturali legati ai cicli delle stagioni o alle condizioni ambientali, così come a tanti ostacoli artificiali”. In questo modo si creano presupposti per una sana circolazione dei beni della terra e, in definitiva, della pace. Per raggiungere “la sicurezza alimentare a breve termine” occorre prevedere finanziamenti “che rendano possibile all’agricoltura di riattivare i propri cicli di produzione, nonostante il deterioramento delle condizioni climatiche e ambientali. Condizioni che hanno un impatto fortemente negativo sulle popolazioni rurali, sui sistemi di coltivazione e le modalità di lavoro, specialmente nei Paesi già afflitti da carenze alimentari”. In tale contesto, i Paesi industrializzati “debbono essere consapevoli del fatto che le crescenti esigenze del mondo richiedono da loro consistenti livelli di aiuto. Essi non possono semplicemente rimanere chiusi verso gli altri: un atteggiamento del genere non servirebbe a risolvere la crisi”. La Giornata, peraltro, ha evidenziato la necessità di “una risposta adeguata, sia da singoli Paesi sia dalla comunità internazionale, anche quando la risposta è limitata agli aiuti di assistenza o di emergenza”. E riferendosi alla campagna "1 miliardo di affamati", messa in campo dall’agenzia dell’Onu per sensibilizzare l'opinione pubblica sull'urgenza della lotta contro la fame, Benedetto XVI ha concluso evidenziando come essa abbia messo in luce il bisogno di una risposta adeguata, sia dai singoli Paesi che dalla comunità internazionale, anche quando si tratti solo di mera assistenza o aiuti legati ad emergenze. Questo è il motivo per cui, “è essenziale una riforma delle istituzioni internazionali in base al principio di sussidiarietà, dal momento che in realtà, come scritto nella Caritas in veritate, ‘le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti’”.

AsiaNews

Ahmadabadi: è bene per l’essenza di ogni religione che i fedeli possano esercitare i propri diritti senza vergogna e paura, come in Iran

Il rapporto fra l’Islam e il Cristianesimo, “basato sulle ispirazioni e le proposizioni del sacro Corano, si è fondato sull’amicizia, il rispetto e la comprensione reciproca” ed “è un peccato che in alcuni periodi nei passati 1400 anni, talvolta a motivo di considerazioni politiche, questi rapporti abbiano vissuto momenti bui”. Così l’ayatollah sciita Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi (nella foto con Benedetto XVI), professore della facoltà di Diritto dell’università “Shahid Beheshti” di Teheran e membro dell’Accademia iraniana delle scienze si è rivolto al Sinodo nel suo intervento, tenuto ieri sera, in qualità di invitato speciale. “Non bisogna incolpare né l’Islam né il Cristianesimo di azioni illegittime di alcuni individui o gruppi – ha affermato l’ayatollah - secondo gli insegnamenti del Corano, in molti Paesi islamici, soprattutto in Iran, come è stato anche stabilito per legge, i cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani. Essi godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano liberamente le proprie pratiche religiose”. “È bene per l’essenza di ogni religione e dei suoi fedeli che i discepoli di ciascuna fede possano esercitare i propri diritti senza vergogna e paura e vivere in conformità al proprio retaggio storico e alla propria cultura” ha ribadito Mohaghegh Ahmadabadi per il quale “la stabilità del mondo dipende dalla stabilità dell’esistenza di gruppi e società piccoli e grandi. Questa stabilità può essere raggiunta soltanto quando tutti possono vivere senza timore e senza minacce da parte degli altri. È questo l’elemento più importante per raggiungere la stabilità e la pace etica e sociale. È nostro dovere promuovere queste condizioni”. Anche se è la prima volta che interviene ad un Sinodo dei vescovi, l'ayatollah è un vecchio frequentatore del Vaticano. "Conosco bene Benedetto XVI, siamo amici da molto tempo, da prima che lui diventasse Pontefice", ha raccontato con orgoglio ai giornalisti. "Una volta, nel 2005, mi ha anche ospitato", ha affermato. "Dove? A casa sua?", hanno chiesto i cronisti. "No, ha provveduto a sistemarmi al Santa Marta", è stata la risposta dell'esponente sciita, ignaro probabilmente di aver dormito nelle stanze che, poco dopo, avrebbero ospitato i cardinali elettori del conclave che ha eletto proprio il suo "amico".

SIR, Ansa