lunedì 16 gennaio 2012

Perquisite dalla polizia belga 3 diocesi nell'ambito delle inchieste su casi di pedofilia. Sequestrati dossier personali su prelati citati da vittime

La polizia ha perquisito oggi tre diocesi in Belgio su mandato della magistratura nell’ambito dell’"Operazione calice", che riguarda l'inchiesta sui casi di pedofilia all'interno della Chiesa Cattolica. Gli agenti hanno sequestrato materiale negli uffici dell’arcivescovo di Malin-Bruxelles ed in quelli dei vescovi di Anversa e Hasselt. "Stiamo cercando dossier personali riguardanti alcuni prelati i cui nomi sono stati citati nelle dichiarazioni delle vittime", ha spiegato, citata dall’agenzia di stampa belga, Lieve Pellens, portavoce dell’Ufficio della procura federale belga, sottolineando che l’operazione è "ad una fase importante". L'indagine riguarda i casi di circa 200 vittime di abusi, sfociate in 87 azioni legali. Lo scandalo dei preti pedofili è scoppiato in Belgio nell'aprile del 2010 quando il vescovo di Bruges, Roger Vangheluwe, si è dimesso dopo aver ammesso degli abusi nei confronti di un nipote minorenne. Da allora sono state circa 500 le persone che hanno accusato dei religiosi di molestie sessuali durante gli anni della loro giovinezza. La Chiesa belga si è impegnata lo scorso dicembre a risarcire le vittime dei reati caduti in prescrizione con somme fra i 2.500 e i 25mila euro.

Asca

La nomina del prefetto di Dottrina della Fede slitta ad aprile. Oltre al tedesco Müller spunta il francese Ricard, ma si considera anche un anglofono

La prossima settimana si riunirà nel palazzo del Sant’Uffizio (foto) la plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede e quasi tutti immaginavano che subito dopo sarebbe stato annunciato il nome del successore del card. William Levada, dal 2005 prefetto del dicastero dottrinale un tempo chiamato "La Suprema". I tempi, invece, sembrano destinati ad allungarsi. Benedetto XVI vuole decidere con calma, esaminando con estrema attenzione tutte le ipotesi sul tappeto. Resta innanzitutto ancora in piedi la candidatura del vescovo di Regensburg, Gerhard Ludwig Müller, 64 anni, già membro della Congregazione, teologo conosciuto e stimato personalmente da Papa Ratzinger, che lo ha a sorpresa convocato a Roma nei giorni scorsi per parlare della sua futura chiamata in curia. Nel caso non andasse in porto la designazione alla guida del dicastero, il prelato tedesco potrebbe essere nominato Bibliotecario di Santa Romana Chiesa al posto del card. Raffaele Farina e ricevere la porpora in un prossimo Concistoro. Un altro candidato preso in considerazione è Jean-Pierre Bernard Ricard, 67 anni, arcivescovo di Bordeaux, anch’egli membro della Congregazione. In entrambi i casi di tratterebbe di vescovi diocesani che però conoscono bene i meccanismi di funzionamento dell’ex Sant’Uffizio. Ma oltre a questi due nomi, il Papa sta valutando anche la possibilità di designare un prefetto anglofono, continuando in questo la tradizione incominciata con l’americano Levada. La motivazione di questa soluzione va ricercata soprattutto nella competenza acquisita dalla Congregazione per la Dottrina della Fede dopo la pubblicazione, alla fine del 2009, della Costituzione Apostolica "Anglicanorum coetibus", che prevede la possibilità di istituire degli Ordinariati anglo-cattolici per accogliere nella comunione con Roma non solo singoli preti o vescovi, ma anche intere comunità anglicane. Nella Curia romana c’è un anglofono che ha lavorato alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il segretario del dicastero per il Culto divino, l’arcivescovo statunitense Joseph Augustine Di Noia. Domenicano, 68 anni, Di Noia è stato sottosegretario dell’ex Sant’Uffizio dal 2002 al 2009 e dunque per tre anni ha lavorato quale numero tre dell’allora card. Joseph Ratzinger. Ma è probabile che nella valutare i possibili candidati provenienti da Paesi di lingua anglosassone si tengano in conto diverse possibilità. Non ha invece alcuna consistenza la candidatura del cardinale salesiano Angelo Amato, attuale prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, già segretario dell’ex Sant’Uffizio, che compirà 74 anni il prossimo giugno. Quello riguardante la scelta del nuovo "custode dell’ortodossia" è un dossier che il Pontefice gestisce personalmente, avendo guidato per oltre un ventennio "La Suprema", che Paolo VI volle riformare mettendo in luce, oltre a quello del controllo, anche il compito di promozione della fede. L’anno appena iniziato sarà importante a questo riguardo, a motivo delle celebrazioni per i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica e per i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II. La nomina del successore del card. Levada è delicata e decisiva. E Benedetto XVI non vuole agire in fretta.

Andrea Tornielli, Vatican Insider

Il 4 febbraio Benedetto XVI incontra i 'Giovani della Pace' del Sermig: desideriamo portare al Papa l'impegno per cambiare la realtà di oggi

Il 4 febbraio, i “Giovani della pace” del Sermig, Servizio missionario giovani, saranno ricevuti in udienza da Benedetto XVI in occasione del loro Appuntamento mondiale, dopo quelli de L’Aquila e di Torino. Tema di quest’anno "Il mondo si può cambiare. Con i giovani". In 7000, anche dall’estero, sono attesi presso l’Aula Paolo VI, in Vaticano. Sarà un incontro, afferma Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, “di conferma di un impegno personale e comunitario nel dire no a ogni tipo di avidità, di sballo e di dipendenza e sì ad una vita nuova costruita sulla convinzione che il mondo si può cambiare, in meglio; un momento in cui invocare l’aiuto e la benedizione del Dio della pace sull’umanità in questo tempo difficile”. Per prepararsi al meglio all’appuntamento i Giovani della pace stanno lanciando in questi giorni un questionario per conoscere cosa pensano le nuove generazioni sulla situazione attuale, con domande sulla fiducia nel futuro, sulla voglia di impegno sociale, sul lavoro, lo studio, la politica. “Desideriamo portare al Papa il punto di vista dei giovani sulla realtà di oggi, insieme all’impegno per cambiarla”. “Il passato - aggiunge Olivero - ci ha lasciato sfide apparentemente impossibili da superare: fame, guerre, malattie, violenze sui più deboli, una crisi economica senza precedenti. Vogliamo affrontarle con coraggio, con speranza, con Dio nel cuore e nei comportamenti”.

SIR

Il Sermig dal Papa

Crescente fiducia e impegno comune per la pace: la responsabilità particolare di ebrei e cattolici. Domani in Italia la Giornata del dialogo

di Norbert Hofmann
Segretario della Commissioneper i rapporti religiosi con l’ebraismo

Il 17 gennaio la Chiesa in Italia celebra come negli anni passati la "Giornata dell’Ebraismo", che offre un’opportunità particolare per ricordare le radici ebraiche della fede cristiana, per guardare con gratitudine al dialogo sistematico in corso con l’ebraismo dal Concilio Vaticano II e per promuoverlo ulteriormente nella situazione attuale attraverso azioni concrete. La "Giornata dell’Ebraismo" è stata finora accolta dalle Conferenze episcopali di Austria, Polonia, Paesi Bassi e Svizzera; in altri Paesi si sta al momento riflettendo sull’opportunità di seguire questo esempio. Il presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, il card. Kurt Koch, dietro incarico di Benedetto XVI, ha sollecitato alcuni Paesi, in cui ebrei e cattolici vivono fianco a fianco e sono in dialogo da molto tempo, a prendere in considerazione l’introduzione di tale giornata commemorativa. Il dialogo ebraico-cattolico è iniziato in maniera sistematica dopo il Concilio Vaticano II. La dichiarazione "Nostra aetate", che rappresenta il punto di partenza e il documento fondante di questo dialogo, fornisce tuttora un indispensabile orientamento per ogni sforzo volto all’avvicinamento e alla riconciliazione tra ebrei e cristiani. "Nostra aetate" fu promulgata il 28 ottobre del 1965 nell’aula conciliare; da allora, si è continuamente tentato di tradurre questo documento nella realtà concreta. Nel 1966, Papa Paolo VI decise che all’interno del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani venisse istituito un ufficio incaricato di programmare e portare avanti il dialogo con l’ebraismo. Da parte ebraica, ci furono molti partner e organizzazioni che entrarono in contatto con la Santa Sede. Tuttavia, essendo impossibile allacciare un dialogo bilaterale con ognuno di loro, la Santa Sede suggerì che tutte le organizzazioni ebraiche interessate al dialogo si riunissero in un unico organismo che potesse essere riconosciuto come partner ufficiale. Così, nacque nel 1970 l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (Ijcic), che è tuttora il partner ufficiale nel dialogo ebraico-cattolico. A sua volta, la Santa Sede istituzionalizzò il dialogo tramite la creazione della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo il 22 ottobre del 1974. La prima conferenza a livello internazionale tra ebrei e cattolici si era comunque già tenuta nel 1971 a Parigi. Come tema, essa si era prefissata lo studio dei concetti di "Popolo e Paese" dal punto di vista della tradizione ebraica e della tradizione cattolica, come pure la promozione dei diritti umani e della libertà di religione. L’anno passato sono stati ricordati i quarant’anni di dialogo tra la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations. In quest’arco di tempo, hanno avuto luogo complessivamente venti grandi conferenze in vari luoghi e su varie tematiche. La XXI riunione dell’International Catholic-Jewish Liaison Committee (Ilc) è stata una sessione commemorativa: dal 27 febbraio al 2 marzo 2011 i membri si sono nuovamente incontrati a Parigi per ricordare la storia comune e per individuare le prospettive future di questo dialogo (il tema era "Quarant’anni di dialogo: riflessioni e prospettive future"). Nel suo discorso iniziale, il card. Kurt Koch ha accennato al carattere commemorativo della sessione: "Quarant’anni di dialogo istituzionalizzato non sono molti rispetto alla lunga storia del popolo ebraico e alla storia millenaria della Chiesa cattolica. Ma ciò che è successo in questi quarant’anni può essere realmente visto come un grande miracolo compiuto dallo Spirito Santo». In cosa consiste questo «grande miracolo", egli lo ha spiegato di seguito: "In questi quarant’anni, a seguito dell’innovativa dichiarazione 'Nostra aetate' (n. 4) del Concilio Vaticano II quarantasei anni fa, le relazioni sono cambiate in maniera irreversibile non soltanto a nostro reciproco vantaggio ma anche . cosa importante - per il bene di tutti coloro che sono impegnati nella promozione del dialogo interreligioso. Ho l’impressione che in questi quarant’anni molti vecchi pregiudizi e inimicizie siano stati superati, la riconciliazione e la collaborazione siano cresciute e l’amicizia personale si sia approfondita". Difatti, l’incontro è stato contrassegnato da un’atmosfera di amicizia e di crescente fiducia, che costituisce la base di ogni dialogo. In una dichiarazione comune alla fine della conferenza, è stato fatto riferimento a questa base irrinunciabile e, al contempo, sono state menzionate le sfide comuni: "Uno dei risultati principali della conferenza è stato l’approfondimento delle relazioni personali e del desiderio comune di far fronte insieme alle enormi sfide davanti alle quali si trovano cattolici ed ebrei in un mondo in rapida e imprevedibile trasformazione. Si è inoltre riconosciuto il dovere religioso comune di contribuire all’alleviamento delle conseguenze mondiali della povertà, dell’ingiustizia, della discriminazione e della negazione dei diritti umani universali. I partecipanti sono stati particolarmente sensibili alla richiesta dei giovani di avere una reale libertà e una piena partecipazione nelle loro società". Dal punto di vista teologico, ebrei e cristiani non hanno soltanto un ricco patrimonio comune, come viene espresso in "Nostra aetate", ma, partendo da questa base condivisa, possono promuovere valori comuni nella società, impegnarsi a favore dei diritti umani e collaborare nel campo sociale e umanitario. Durante l’incontro di Parigi, è stata sottolineata in questo contesto anche l’importanza della libertà religiosa e si è ribadita la convinzione comune che la violenza perpetrata in nome della religione non è conciliabile con l’idea che ebraismo e cristianesimo hanno di Dio: "In molte parti del mondo, le minoranze, soprattutto le minoranze religiose, sono oggetto di discriminazione, minacciate da ingiuste restrizioni della loro libertà religiosa e addirittura vittime di persecuzioni e uccisioni. I relatori hanno espresso profondo dolore davanti alle ripetute istanze di violenza e terrorismo 'in nome di Dio', ivi compresi i sempre più numerosi attacchi contro i cristiani e gli appelli alla distruzione dello Stato di Israele. La conferenza deplora ogni atto di violenza perpetrato in nome della religione come totale corruzione della natura stessa di una genuina relazione con Dio". Queste affermazioni sono in linea con l’appello rivolto da Papa Benedetto XVI davanti ai partecipanti dell’incontro religioso di Assisi, il 27 ottobre 2011: "Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono e vita, amore!". Il dialogo con le altre religioni è volto a mantenere e diffondere la pace, a promuovere la giustizia e preservare il creato in un impegno comune. L’ebraismo, e insieme a lui il cristianesimo, non vuole soltanto la pace in questo mondo, ma vive anche della speranza nella pace messianica, come dice Isaia, 2, 3-4: "Verranno molti popoli e diranno: 'Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri'. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra". La pace, dunque, come promessa della fine dei tempi, poiché i tempi odierni sono troppo spesso segnati da tensioni, violenze e guerre. L’ebraismo e il cristianesimo sono però chiamati in modo particolare a promuovere la pace già in questo mondo. E ciò essi lo devono fare insieme, poiché sono da sempre dipendenti l’uno dall’altro. L’allora card. Joseph Ratzinger ha sottolineato proprio questo strettissimo legame in un suo articolo comparso su L’Osservatore Romano il 29 dicembre del 2000: "È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l’Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede". Da questo rapporto particolare tra ebraismo e cristianesimo deriva, per il dialogo ebraico-cattolico, anche una responsabilità particolare, che consiste nell’impegnarsi insieme a favore della pace nel mondo, senza però perdere di vista la promessa di una pace che ci sarà donata alla fine dei tempi. Se ebrei e cristiani si fanno insieme promotori di pace, allora diventeranno una benedizione per il mondo intero. "Nostra aetate" è stata nel 1965 il punto di partenza del dialogo con l’ebraismo e, nel corso del secolo passato, ha continuato a influenzare le nostre relazioni nei loro molteplici sviluppi. Quando, nel marzo del 2011, sono stati commemorati a Parigi i quarant’anni di dialogo istituzionalizzato tra la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, la prima espressione di gratitudine è stata rivolta a Dio, onnipotente ed eterno, che tiene la sua mano protettiva e benedicente sopra questo dialogo e lo accompagna con il suo Spirito, conducendolo verso un futuro ricco di speranza.

L'Osservatore Romano

I fondatori del Cammino neocatecumenale puntano all'approvazione definitiva del loro modo 'conviviale' di celebrare Messa. Il 20 gennaio il verdetto

Come già altre volte negli anni passati, anche in questo mese di gennaio, venerdì 20, Benedetto XVI incontrerà in Vaticano, nell'Aula Paolo VI, migliaia di membri del Cammino neocatecumenale, con i loro fondatori e leader, gli spagnoli Francisco "Kiko" Argüello e Carmen Hernández. Un anno fa, nell'udienza del 17 gennaio 2011, il Papa comunicò alla platea entusiasta che i tredici volumi del catechismo in uso nelle loro comunità avevano ricevuto la sospirata approvazione, dopo un lunghissimo esame cominciato nel 1997 da parte della congregazione per la dottrina della fede, e dopo che vi erano state introdotte numerose correzioni, con circa 2000 rimandi a passi paralleli del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica. Il prossimo 20 gennaio, invece, i leader e i membri del Cammino si aspettano dalle supreme autorità della Chiesa un "placet" ancor più ardentemente agognato. L'approvazione ufficiale e definitiva di quello che è il loro tratto distintivo più visibile, ma anche più controverso: il modo con cui celebrano le Messe. Le Messe delle comunità neocatecumenali si distinguono da sempre per almeno quattro elementi. 1) Vengono celebrate in gruppi ristretti, corrispondenti ai diversi stadi di avanzamento nel percorso catechetico. Se in una parrocchia, ad esempio, le comunità neocatecumenali sono dodici, ciascuna a un diverso stadio, altrettante saranno le Messe, celebrate in locali separati più o meno alla stessa ora, preferibilmente la sera del sabato. 2) L'ambiente e l'arredo ricalcano l'immagine del banchetto: una tavola con attorno i commensali seduti. Anche quando i neocatecumenali celebrano la Messa non in una sala parrocchiale ma in una chiesa, l'altare spesso lo ignorano. Collocano una tavola al centro e vi si siedono attorno in cerchio. 3) Le letture bibliche della Messa sono precedute ciascuna da un'ampia "monizione" da parte dell'uno o dell'altro della comunità e sono seguite, specie dopo il Vangelo, dalle "risonanze", ossia dalle riflessioni personali di un ampio numero dei presenti. L'omelia del sacerdote si aggiunge alle "risonanze" senza distinguersi da esse. 4) La comunione avviene anch'essa riproducendo il modulo del banchetto. Il pane consacrato, un grosso pane azzimo di farina di frumento, per due terzi bianca e per un terzo integrale, preparato e cotto con le regole minuziose stabilite da Kiko, viene spezzato e distribuito ai presenti, che restano ai loro posti. A distribuzione ultimata, viene mangiato contemporaneamente da tutti, compreso il sacerdote. Successivamente, questi passa dall'uno all'altro con il calice del vino consacrato, al quale ciascuno beve. Di particolarità ve ne sono anche altre, ma bastano queste quattro per capire quanta diversità di forma e di sostanza vi sia tra le Messe dei neocatecumenali e quelle celebrate secondo le regole liturgiche generali. Una diversità sicuramente più forte di quella che intercorre tra le Messe in rito romano antico e in rito moderno. Le autorità vaticane, a più riprese, hanno cercato di riportare i neocatecumenali a una maggiore fedeltà alla "lex orandi" in vigore nella Chiesa cattolica. Ma con polso fiacco e risultati quasi nulli. Il richiamo più forte è stato compiuto con la promulgazione degli statuti definitivi del Cammino, approvati nel 2008. In essi, all'articolo 13, le autorità vaticane hanno stabilito che le Messe delle comunità devono essere "aperte anche ad altri fedeli"; che la comunione va ricevuta "in piedi"; che per le letture bibliche sono consentite, oltre all'omelia, solo "brevi monizioni" introduttive. Delle "risonanze", ammesse nei precedenti statuti, provvisori, del 2002, non c'è traccia in questo stesso articolo 13 dedicato alla celebrazione della Messa. Se ne parla solo all'articolo 11, che però riguarda le celebrazioni infrasettimanali della Parola, che ogni comunità fa con i propri catechisti. Sta di fatto che è cambiato pochissimo tra il modo con cui oggi i neocatecumenali celebrano la messa e il modo con cui la celebravano fino ad alcuni anni fa, quando in più si passavano di Mano in mano, festanti, le coppe di vino consacrato. Solo in teoria le loro Messe di gruppo sono state aperte anche ad altri fedeli.Seduti o in piedi, il loro modo conviviale di fare la comunione è sempre lo stesso. Le "risonanze" personali dei presenti continuano a invadere e soverchiare la prima parte della Messa. Non solo. Dall'udienza con Benedetto XVI del 20 gennaio prossimo Kiko, Carmen e i loro seguaci contano di uscire con una esplicita approvazione di tutto ciò. Un'approvazione con tutti i crismi dell'ufficialità. Promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino. Con un Francis Arinze cardinale prefetto della Congregazione e soprattutto con un Malcolm Ranjith segretario della stessa, come era fino a pochi anni fa, una simile approvazione sarebbe stata impensabile. Il card. Arinze, oggi in pensione, fu protagonista nel 2006 di un memorabile scontro con i capi del Cammino, quando ingiunse loro per lettera una serie di correzioni, alle quali essi sfrontatamente disubbidirono. Quanto a Ranjith, ora tornato in patria, nello Sri Lanka, come arcivescovo di Colombo, è difficile trovare tra i cardinali uno più agguerrito di lui nel difendere la fedeltà alla tradizione liturgica. Nel campo della liturgia, il card. Ranjith ha fama di essere più ratzingeriano dello stesso Joseph Ratzinger, suo maestro. Oggi alla testa della Congregazione per il Culto Divino c'è un altro cardinale che passa anche lui per ratzingeriano di ferro, lo spagnolo Antonio Cañizares Llovera. Ma a giudicare dal documento che egli avrebbe pronto per il prossimo 20 gennaio, non si direbbe proprio. Infatti, un suo via libera alla "creatività" liturgica dei neocatecumenali farebbe solo danno alla sapiente e paziente opera di ricostruzione della liturgia cattolica che Papa Benedetto sta compiendo da anni, con un coraggio che è pari alla grande solitudine che lo circonda. E fornirebbe un argomento in più alle accuse dei tradizionalisti, per non dire dei lefebvriani. C'è un'astuzia che i neocatecumenali adottano quando alle loro Messe partecipano o presenziano Papi, vescovi e cardinali: quella di attenersi alle regole liturgiche generali. Il card. Cañizares non è il solo ad essere caduto in questa trappola. O a credere che le intemperanze liturgiche del Cammino, se pur ci sono, sono minime e perdonabili, a confronto col fervore di fede di chi vi partecipa. Come lui, numerosi altri cardinali e vescovi hanno un occhio di riguardo per i neocatecumenali, in particolare in Spagna. Nella Curia romana è un loro acceso sostenitore il prefetto di "Propaganda Fide" Fernando Filoni, in precedenza sostituto segretario di Stato. Così, mentre con altri movimenti cattolici le autorità vaticane sono inflessibili nell'esigere il rispetto delle norme liturgiche, con i neocatecumenali sono più indulgenti. Ad esempio si tollera che, nelle loro Messe, le "risonanze" continuino a debordare, quando invece alla pur potente Comunità di Sant'Egidio si ingiunse, anni fa, di far tenere l'omelia esclusivamente dal sacerdote, e non più, come avveniva in precedenza, dal loro fondatore Andrea Riccardi o in subordine da altri leader laici della comunità. Questa diffusa indulgenza nei confronti delle licenze liturgiche dei neocatecumenali ha una spiegazione che risale ai primordi del movimento, e che è utile richiamare. In campo liturgico, più che Kiko, è stata la cofondatrice Carmen Hernández a modellare il "rito" neocatecumenale. Negli anni del Concilio Vaticano II e immediatamente successivi, quando ancora portava l'abito religioso delle Misioneras de Cristo Jesús e studiava per ottenere la licenza in teologia, Carmen si appassionò al rinnovamento della liturgia. Suoi maestri e ispiratori furono in Spagna il liturgista Pedro Farnés Scherer e a Roma don Luigi della Torre, anche lui liturgista di spicco, parroco della chiesa della Natività in via Gallia, che fu uno dei primi insediamenti romani del movimento, e mons. Annibale Bugnini, all'epoca potente segretario della Congregazione per il Culto Divino e principale artefice della riforma liturgica postconciliare. Fu proprio Bugnini, all'inizio degli anni Settanta, a felicitarsi per il modo con cui le prime comunità fondate da Kiko e Carmen celebravano le Messe. Ne scrisse su Notitiæ, la rivista ufficiale della Congregazione per il Culto Divino. E fu ancora lui, assieme ai cofondatori, a decidere di chiamare il neonato movimento "Cammino neocatecumenale". Dalla frequentazione di questi liturgisti e da una disinvolta rielaborazione delle loro tesi, Kiko e Carmen trassero una loro personale concezione della liturgia cattolica, che misero in pratica nelle Messe delle loro comunità. C'è un libro di un sacerdote ligure del Cammino, Piergiovanni Devoto, che avvalendosi di testi inediti di Kiko e Carmen, ha messo in pubblico questa loro bizzarra concezione. Il libro, uscito nel 2004 col titolo “Il neocatecumenato. Un’iniziazione cristiana per adulti” e con la calorosa presentazione di Paul Josef Cordes, all'epoca presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum", oggi cardinale, è stato stampato da Chirico, la casa editrice napoletana che ha anche pubblicato l'unica opera tradotta in italiano di Farnés Scherer, il liturgista che per primo ispirò Carmen. Ecco qui di seguito alcuni passaggi del libro, tratti dalle pagine 71-77. “Nel corso dei secoli l’Eucaristia è stata spezzettata e ricoperta, rivestita fino al punto che noi non vedevamo nella nostra messa da nessuna parte la risurrezione di Gesù Cristo”...“Nel IV secolo, con la conversione di Costantino, anche l’imperatore col suo corteo va in chiesa per celebrare l’Eucaristia: nascono così liturgie di ingresso, rese solenni da canti e da salmi e, quando questi vengono poi eliminati, rimane solo l’antifona, senza più il salmo, costituendo un vero e proprio assurdo”...“Analogamente prendono campo le processioni offertoriali, nelle quali emerge la concezione propria della religiosità naturale che tende a placare la divinità mediante doni e offerte”...“La Chiesa ha tollerato per secoli forme non genuine. Il ‘Gloria’, che faceva parte della liturgia delle ore recitate dai monaci, è entrato nella messa quando delle due azioni liturgiche si è fatta un unica celebrazione. Il ‘Credo’ è comparso all’apparire di eresie e di apostasie. Anche l’’Orate Fratres’ è esempio culminante delle preghiere con cui si infarciva la messa”...“Col passare dei secoli le orazioni private si inseriscono in notevole quantità nella messa. L’assemblea non c’è più, la messa ha preso un tono penitenziale, in netto contrasto con l’esultanza pasquale da cui è sorta”...“E mentre il popolo vive la privatizzazione della messa, da parte dei dotti vengono elaborate teologie razionali, che, se contengono ‘in nuce’ l’essenziale della Rivelazione, sono ammantate di abiti filosofici estranei a Cristo e agli apostoli”...“Allora si capisce perché sorse Lutero, che fece piazza pulita di tutto ciò che credeva fosse aggiunta o tradizione puramente umana”...“Lutero, che non ha mai dubitato della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, ha rifiutato la ‘transustanziazione’, perché legata al concetto di sostanza aristotelico-tomistico, estraneo alla Chiesa degli apostoli e dei Padri”...“La rigidità e il fissismo del Concilio di Trento generarono una mentalità statica in liturgia, arrivata fino ai nostri giorni, pronta a scandalizzarsi di qualsisasi mutamento o trasformazione. E questo è un errore, perché la liturgia è vita, una realtà che è lo Spirito vivente tra gli uomini. Perciò non lo si può mai imbottigliare”...“Usciti fuori da una mentalità legalista e fissista, abbiamo assistito col Vaticano II a un profondo rinnovamento della liturgia. Sono stati tolti dall’eucaristia tutti quei paludamenti che la ricoprivano. È interessante vedere che in origine l’anafora [cioè la preghiera della consacrazione - ndr] non era scritta ma improvvisata dal presidente”...“La celebrazione dell’eucaristia il sabato sera non è per facilitare l’esodo domenicale, ma per andare alle radici: il giorno di riposo per gli ebrei parte dalle prime tre stelle del venerdì e i primi vespri della domenica per tutta la Chiesa sono da sempre il sabato sera”...“Il sabato si tratta di entrare nella festa con tutto l’essere, per sedersi alla mensa del Gran Re e gustare già ora il banchetto della vita eterna. Dopo la cena, un po’ di festa cordiale e amichevole concluderà questa giornata”...Una domanda: e questo sarebbe "lo spirito della liturgia", titolo di un libro capitale di Joseph Ratzinger, che le autorità vaticane si appresterebbero a convalidare, con la prassi che ne discende?

Sandro Magister, www. chiesa

Neocatecumenali. Le illusioni degli “indignados”

Koch: l’unità dei cristiani un dono di Dio, essere disponibili di accettare questa realtà. Si prospetta un buon futuro nel dialogo, anche se difficile

“Sono comunque convinto che si prospetta un buon futuro nel dialogo e anche se oggi è difficile, sappiamo che la vita non è sempre una strada retta”. Con questa immagine il card. Kurt Koch (nella foto con Benedetto XVI), presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, delinea il bilancio del dialogo ecumenico a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II ad oggi in un’intervista rilasciata all'agenzia SIR in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio). Il cardinale parla dello stato del dialogo con le Chiese della Riforma, gli anglicani, le Chiese ortodosse e conclude: “Negli anni immediatamente successivi al Concilio, l’entusiasmo era molto forte e forse si pensava che l’unità della Chiesa era alla portata di mano. Dopo abbiamo dovuto accorgerci che i problemi erano più grandi di quello che immaginavamo. Che occorreva molto più tempo, pazienza e studio. Abbiamo anche dovuto imparare che non siamo noi a fare l’unità della Chiesa. Che l’unità è un dono di Dio e noi dobbiamo essere disponibili di accettare questa realtà. Il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno ci riporta all’inizio di tutto l’ecumenismo, al potere trasformante della preghiera. Un inizio che non possiamo lasciare al passato ma deve sempre accompagnare ogni impegno ecumenico. Il Concilio Vaticano II ha parlato dell’ecumenismo spirituale come anima del movimento ecumenismo e in questo senso questa Settimana di preghiera deve mostrare il nucleo dell’ecumenismo”. “Sopprimere la vita umana è una violenza contro l’immagine di Dio insita in ogni uomo e contro Dio come creatore della vita. In questo senso è importante che ebrei e cristiani diano la stessa testimonianza nel mondo di oggi”, ha detto ancora il card. Koch, commentando il tema, “La sesta parola: non uccidere”, della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei che si celebra domani, martedì 17 gennaio. “Questo comandamento è molto attuale. Vedo soprattutto tre sfide: la prima è il terrorismo, i massacri oggi e le persecuzioni contro i cristiani in ragione della loro fede. La seconda sfida è la pena di morte che persiste ancora in alcuni paesi e addirittura in altri si discute per reintrodurla. Sono molto contento che il Santo Padre abbia pronunciato parole chiare contro questa pratica. In terzo luogo direi le sfide bioetiche dell’aborto ma soprattutto dell’eutanasia in Europa”. “Promuovere e sostenere la dignità della vita di ogni uomo dall’inizio alla fine naturale è una grande sfida nelle società secolarizzate e su questi temi ebrei e cristiani hanno la comune tradizione biblica e dunque la comune convinzione che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio”.

SIR

La via della pazienza: il card. Kurt Koch su ecumenismo e Giornata ebraismo

Benedetto XVI riceve il card. Bagnasco in vista del Consiglio Episcopale permanente. Anticipati al Papa i temi della prolusione d'apertura

Papa Benedetto XVI ha ricevuto questa mattina in udienza il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, card. Angelo Bagnasco (foto), arcivescovo di Genova. L'incontro avviene in vista della prossima riunione del Consiglio Permanente della CEI, dal 23 al 26 gennaio. In apertura dei lavori il card. Bagnasco, che ha anticipato al Papa le riflessioni che intende proporre all’attenzione dei membri del Consiglio Episcopale Permanente, terrà la sua prolusione. Si tratta della prima riunione del 'parlamento' dei vescovi dopo la caduta del governo Berlusconi, l'insedimanto del nuovo premier Mario Monti, ricevuto sabato scorso in udienza dal Pontefice.

Asca

Il Papa in Messico e a Cuba. Si lavora per un incontro con l’anziano leader Fidel Castro. Ma Benedetto XVI non cerca 'photo opportunities'

Sul programma ufficiale pubblicato dai vescovi cubani non se ne fa cenno. Ma ormai è qualcosa di più di una semplice ipotesi: il colpo a sorpresa del prossimo viaggio papale a Cuba potrebbe essere il colloquio vis à vis tra Benedetto XVI e il Líder Màximo Fidel Castro, che già nel 1998 ebbe un incontro epocale con Giovani Paolo II. Il Papa sarà a Cuba dal 26 al 28 marzo, dopo aver trascorso in Messico i primi tre giorni e mezzo della sua prossima, impegnativa trasferta intercontinentale. Lo scenario su cui stanno lavorando con intenzione e piglio risoluti i funzionari del governo cubano e l’arcivescovo Bruno Musarò, nominato nunzio apostolico a Cuba lo scorso agosto, è quello di un incontro tra Benedetto e Fidel che dovrebbe svolgersi nel pomeriggio del 27 marzo, quando il successore di Pietro si recherà al Palacio de la Revoluciòn per rendere la sua visita di cortesia al presidente cubano Raùl Castro. Le incognite intorno all’incontro sono in gran parte connesse allo stato di salute di Fidel e giustificano il riserbo finora mantenuto intorno al progetto. In questi giorni, il governo sta predisponendo tutte le condizioni anche logistico-sanitarie per rendere possibile il singolare rendez-vous. Il velo protettivo mantenuto dagli apparati intorno alla vita del’anziano leader non rende facile decifrare quali siano al momento le sue condizioni mediche. Qualche giorno fa, sui social network sono rimbalzati gli ennesimi rumors sulla sua presunta morte. "La Cia ha cercato di ucciderlo 700 volte, Twitter sta cercando di fare lo stesso" ha scritto il blogger Yohandy, supporter della leadership cubana. Poi, mercoledì scorso, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in visita a Cuba ha incontrato Fidel e si è intrattenuto con lui per addirittura due ore, a detta del fratello Raùl. "Il comandante Fidel sta bene" ha detto Ahmadinejad, aggiungendo di averlo trovato come al solito ben disposto a dire la sua sull’attualità internazionale, che continua a seguire "in modo dettagliato". Di solito Benedetto XVI non cerca "photo opportunities". In armonia con la sua sensibilità spirituale e col suo temperamento, i viaggi del Papa regnante non puntano mai intenzionalmente alla spettacolarizzazione in chiave geo-politica, anche quando incontra i grandi della scena internazionale. La sua trasferta a Cuba avrà come tratto distintivo il desiderio di confermare la fede dei cattolici cubani. Soprattutto quella fede popolare che negli ultimi mesi si è espressa in modo prodigioso nelle moltitudini dei fedeli che nelle cappelle, nelle case e nelle piazze hanno accolto con la preghiera e con la festa la statua della Virgen de la Caridad del Cobre, la patrona di Cuba portata in pellegrinaggio in ogni angolo dell’isola. Nello stesso tempo, appare evidente che dall’incontro tra Fidel e Benedetto potrebbero sprigionarsi suggestioni del tutto singolari, viste le personalità dei due e le condizioni particolari che oggi si trovano a vivere. Fidel Castro ha compiuto 85 anni lo scorso agosto. Joseph Ratzinger li compirà il prossimo aprile. I profili del capo rivoluzionario latinoamericano e del Papa teologo bavarese sembrano quanto mai distanti. Ma forse anche per questo lo scambio di sguardi e di parole tra loro potrebbe rivelarsi interessante per tutti. I loro lunghi percorsi individuali hanno attraversato le tragedie, i fallimenti e le ripartenze di buona parte del Novecento. Il loro itinerario esistenziale li induce anche oggi ad avere come orizzonte dello sguardo quello che succede nel mondo intero, quel mondo che ha iniziato il nuovo millennio con l’11 settembre e adesso è alle prese con la crisi globale. Da ex allievo dei gesuiti de L’Avana, l’uomo che ha guidato la rivoluzione marxista in quella che i suoi critici ora chiamano "l’isola-carcere" non ha mai archiviato una certa curiosità per il cristianesimo e per l’annuncio di liberazione universale veicolato dalla Chiesa. Adesso, anche la Chiesa locale si offre per fare la sua parte nella controversa transizione cubana, senza antagonismi e chiusure preconcette. E mentre da Miami l’esule anticastrista Armando Valladares lancia allarmi sul pericolo di strumentalizzazione del viaggio papale, attaccando il card. Tarcisio Bertone per "pro-castrismo conclamato" e i vescovi cubani per aver collaborato con "i lupi che opprimono il gregge", c’è da immaginare che il Lìder Maxìmo ascolterà con una certa partecipazione emotiva quello che vorrà dirgli il vescovo di Roma. Magari ora capita anche al vecchio combattente di chiedersi se c’è pure per lui qualcosa che l’aspetta, dopo.

Gianni Valente, Vatican Insider