martedì 14 agosto 2012

In Vaticano personaggi meno limpidi hanno lavorato per minimizzare, sedare, addossare tutte le colpe al maggiordomo, depennare altri coinvolgimenti

Ha fatto tutto lui, o quasi. Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa rinviato ieri a giudizio per la fuga di documenti riservati della Santa Sede (Vatileaks), ha frugato nelle carte di Benedetto XVI, le ha fotocopiate, le ha nascoste a casa (anche nella playstation del figlio, vuole la leggenda), poi ha trovato su internet il numero di telefono di Gianluigi Nuzzi, lo è andato a trovare e gli ha passato il materiale. Ne è uscito un bestseller, "Sua Santità", che ha spinto la Santa Sede sull’orlo di una crisi di nervi. Un mostruoso ambaradan scaturito dall’intraprendenza di un semplice maggiordomo. Chiariamolo subito a scanso di equivoci: stiamo scherzando. Non vogliamo credere che la verità sia tutta qui, fosse anche soltanto la verità giudiziaria. Del resto, lo ha precisato lo stesso Vaticano. Il Papa in persona ha invitato magistrati e cardinali della commissione ad hoc a procedere “con solerzia”. Nella requisitoria pubblicata ieri il promotore di giustizia Nicola Picardi ha scritto, nero su bianco, che le indagini “non hanno ancora portato piena luce su tutte le articolate e intricate vicende che costituiscono l’oggetto complesso di questa istruzione”. Il giudice Piero Antonio Bonnet ha sottolineato che l’istruttoria è chiusa “limitatamente al solo reato di furto aggravato” mentre resta “aperta” per tutto il resto, a partire dal nodo della divulgazione delle carte fotocopiate proditoriamente, dei complici del maggiordomo e del movente che lo ha spinto a lavare i panni sporchi in pubblico. E il portavoce vaticano Federico Lombardi ha puntualizzato che la sentenza ha marcato sì una tappa di trasparenza, analoga a quella compiuta, in tutt’altro ambito, con l’esame delle finanze vaticane compiuto da Moneyval, ma “non rappresenta certo l’esito finale delle indagini e delle riflessioni su che cosa questa vicenda significa e in quale contesto è maturata”. I galantuomini in Vaticano non mancano. Ma accanto a loro si muovono, spesso nell’ombra, personaggi meno limpidi. Che in tutti questi mesi, da quando Paolo Gabriele è stato arrestato il 24 maggio scorso, hanno lavorato per minimizzare, sedare, addossare tutte le colpe al maggiordomo del Papa, depennare altri coinvolgimenti, stornare l’attenzione dai problemi soggiacenti. Come se il caso Vatileaks non avesse mostrato, al di là della personale vicenda di “Paoletto”, un problema di governance della Curia romana. Come se Benedetto XVI non avesse incontrato, sulla scia di Vatileaks, cardinali e arcivescovi dei più diversi angoli del mondo per raccogliere opinioni sul superamento di una crisi di sistema. Come se il maggiordomo del Papa non avesse raccolto, pur travisandolo in un delirio donchisciottesco, un sentimento di accerchiamento diffuso, e non da oggi, nel Palazzo Apostolico. E come se avesse potuto fare tutto da solo, senza suggeritori occulti e fomentatori invidiosi, complici opportunisti e mandanti morali. E allora sì, fa sorridere scorrere le pagine dei dispositivi giudiziari pubblicati ieri dal Vaticano; leggere che l’assistente di camera del Pontefice si considerava, versione teologica degli 007, un “infiltrato” dello Spirito Santo nella Chiesa; che si è sventatamente spinto a farsi intervistare, criptato sì ma riconoscibile a chi lo conosceva, dalla trasmissione "Gli intoccabili" di Gianluigi Nuzzi su La 7 (ma non disse in quell’occasione che aveva “una ventina” di complici? E gli altri 19 che fine hanno fatto? E a Il Fatto Quotidiano, che per primo pubblicò alcuni dei documenti incriminati, chi li portò?); che una delle due perizie psichiatriche che gli sono state fatte sancisce che “il sig. Gabriele si caratterizza per una intelligenza semplice in una personalità fragile con derive paranoidi a copertura di una profonda insicurezza personale e di un bisogno irrisolto di godere della considerazione e dell’affetto degli altri” condito con “sentimenti di colpa e senso di grandiosità, connessi ad un desiderio di agire a favore di un personale ideale di giustizia” (ah, l’altra perizia sostiene tutt’altro); che a casa sua sono stati rinvenuti un assegno di 100mila euro intestato al Papa (che nessuno può riscuotere, se non, appunto, il Papa), una preziosa traduzione dell'Eneide di Annibal Caro del 1581, e financo una pepita d’oro proveniente dall’appartamento pontificio. Fa sorridere, ma fino a un certo punto. Perché sotto sotto, ma neanche tanto, qualche malintenzionato potrebbe concludere che è tutta colpa di quel picchiatello del maggiordomo. E allora, “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce 'o ppassato…”.

Iacopo Scaramuzzi, Linkiesta


Il maggiordomo del Papa a processo. Ma le indagini si allargano "in più direzioni"