Il Foglio
In una stanza della sede della Comunità di Sant’Egidio dedicata agli ebrei (ogni libro parla di loro) lo storico Andrea Riccardi (nella foto con Benedetto XVI) mostra alcuni volumi. Tra questi “Il tempio maggiore di Roma”, dedicato alla Sinagoga romana. Un luogo carico di storia perché bimillenaria è la storia degli ebrei nella capitale. “Ricordo che ne parlava ad Assisi nel 1986 il rabbino Elio Toaff. Ne parlava con la gente. Per lui il rapporto degli ebrei con Roma era importante. E, in effetti, anche la visita che nell’86 Wojtyla fece alla sinagoga sancì il valore di questo rapporto”.
Per il Papa andare nella Sinagoga romana non è la stessa cosa che entrare nei templi statunitensi. E nemmeno è come visitare i luoghi di culto ebraici europei. La diaspora di Roma è la più antica d’Europa e la vicinanza fisica al Vaticano dice molto. Spiega Riccardi: “La comunità ebraica di Roma è vicina alla chiesa geograficamente e storicamente ma insieme è lontana: il ghetto con tutto quello ha significato, la divide dalla Chiesa. C’è la terribile memoria del ghetto, la memoria dell’umiliazione ebraica subita fino al 1870, l’anno dell’emancipazione. E, infatti, non fu a caso che prima della visita di Wojtyla nel 1986, Toaff fece presente al Papa polacco questa particolarità della presenza ebraica in Roma. E Wojtyla si scusò per questo”.
Già, Giovanni Paolo II. Un Papa polacco in Sinagoga. E quasi ventiquattro anni dopo di lui, il successore, un Papa tedesco, compie lo stesso gesto: “Ogni uomo ha la sua storia – dice Riccardi –. Benedetto XVI porta nel suo cuore e nella sua memoria la vicenda dolorosa di un paese violentato dal nazismo e, insieme, violentatore a causa del nazismo. Credo, comunque, che non a caso le due visite sono avvenute sotto questi due pontificati: un Papa tedesco e un Papa polacco sentono la questione ebraica con una maggiore intensità di come l’ha sentita, ad esempio, Paolo VI”.
Torniamo al ghetto. Perché la visita del Papa si svolge anche qui, non solo in sinagoga. “Non si può dimenticare cosa significhi il ghetto per Roma, per gli ebrei e i cattolici. Fu Pio IX, ad esempio, il 17 aprile 1848, ad abbattere il muro che circondava il ghetto e, poi, a far rientrare nel quartiere pur privo di porte e recinzione gli stessi ebrei. Roma è stata un città teocratica, tutta cattolica, nella quale non c’è stato pluralismo religioso. Ma anche una città nella quale stranamente gli ebrei ci sono sempre stati. E questa presenza ha creato, se non un rapporto di osmosi, un rapporto di vicinanza. E tutto ciò rappresenta un unicum: ben diversa, ad esempio, è la storia del cattolicesimo spagnolo, un cattolicesimo senza ebrei, che ha fatto il discorso sulla ‘limpieza de sangre’, la purezza di sangue. A Roma tutto è stato diverso: gli ebrei qui sono per forza di cose lontani ma anche vicini ai cattolici”.
Poi ci sono tante altre cose. Vicende che avvicinano e allontanano le due parti, a cominciare dai silenzi di Pio XII dei quali ha detto ieri il rabbino Riccardo Di Segni di volerne parlare col Papa. Ma già molto il Vaticano ne ha parlato, non ultimo il direttore dell’Osservatore Romano il cui lavoro è confluito in “In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia”: “E’ una vicenda su cui si sono versati fiumi d’inchiostro – dice Riccardi –. Si è scritto molto di quei giorni che vanno dall’8 settembre 1943 al giugno 1944, quei terribili mesi – mesi a cui Riccardi ha dedicato ‘L’inverno più lungo’, ndr – con la deportazione degli ebrei di Roma in quel 16 ottobre del 1943. Un momento terribile, di vicinanza di tanta parte del mondo cattolico, soprattutto preti e suore . Ma anche tante famiglie accolsero e nascosero degli ebrei. Con loro anche tanti renitenti alla leva, politici, giovani: qui i cristiani furono molto vicini agli ebrei”.
Il 16 ottobre del ’43 resta ancora oggi una ferita aperta per tutta Roma: “Le radici del 16 ottobre vengono da lontano, dalle leggi razziali, da quando una parte dei romani (più romani dei romani) furono isolati dal resto della popolazione e si disse che si fece poco per loro. Tutti tuttavia hanno detto e hanno fatto niente in quel 1938. Tutti. Nessuno capì che quella fu l’anticamera di un dramma enorme. Non si riuscì a comprendere la verità di quanto una volta mi disse il rabbino Toaff: ‘Si comincia con gli ebrei e poi arriva l’ora di tutti’. La questione dei silenzi di Pio XII è venuta dopo. E’ una questione che un po’ mi accompagna dall’adolescenza. Già in classe al liceo Virgilio dove c’erano molti ragazzi ebrei (nella seconda metà degli anni sessanta) si discuteva se Pio XII avesse delle responsabilità o meno. I giudizi erano e sono differenti. E’ certo che il Papa scelse di non parlare perché considerò che una sua aperta dichiarazione avrebbe creato più problemi che vantaggi. Questa fu la posizione del Papa il quale, inoltre, fece sì che gli ebrei venissero nascosti negli ambienti cattolici. E la cosa avvenne non senza gravi rischi. A quest’opera di nascondimento degli ebrei, a mio avviso, partecipò con molta insistenza anche l’allora monsignor Giovanni Battista Montini. Del resto, in un colloquio con Roncalli del 10 ottobre del 1941, disse che lo stesso Pio XII gli chiese se il suo “silenzio” – così disse – non fosse giudicato male…Certo, l’ebraismo giudica oggi insoddisfacente questo atteggiamento di Pio XII. Io ho cercato di dare un contributo alla ricostruzione storica degli avvenimenti. Perché la storia deve aiutarci a comprendere. E sono oggi convinto che dobbiamo guardare avanti condividendo una memoria: quel 16 ottobre deve diventare una memoria condivisa di tutti i romani perchè è la pagina più nera della città da secoli. Con una lezione: mai isolare una comunità. Mai lasciar crescere la predicazione dell’odio”.
La visita in Sinagoga del Papa è un forte valore simbolico. Nonostante il dialogo teologico tra le due parti non sia facile. Tutt’altro. “La visita di Benedetto XVI che lui stesso ha voluto fare è per dire agli ebrei che bisogna guardare il futuro e che cristiani ed ebrei è necessario si parlino. Anche la comunità ebraica ha voluto questa visita, non ha caso è stata lei a invitare il Papa, e l’ha voluta perché crede che occorre parlare. La visita di Giovanni Paolo II fu la caduta di un muro. Oggi, quella di Benedetto XVI, mi appare invece come la costruzione di un ponte. Quindi l’opera è più complessa e per certi aspetti può provocare minore emozionalità. Ma forse, proprio per questo, resta ancor più necessaria. Oggi in questo mondo caotico siamo tutti soli e senza legami. In questo mondo è rotto ogni rapporto con la tradizione e la trasmissione della fede. E quindi è proprio in questo mondo che cristiani ed ebrei hanno una responsabilità comune. Quando guardo la Sinagoga sul Tevere non penso soltanto al passato più triste. Per me la Sinagoga rappresenta un riferimento alla fede nel Dio unico nel cuore di questa città. Certo, Toaff era un uomo che aveva vissuto il dramma della guerra. Oggi c’è un’altra generazione di dirigenti come il rabbino Di Segni o il presidente Pacifici. Di Segni porta ancora nella memoria quelle vicende tristi ma è nato dopo. Ma anche lui si è posto, nelle temperie di una società secolarizzata e svuotata, il problema di cosa voglia dire credere e quello dell’identità della comunità ebraica. Ritengo che il problema sia cosa voglia dire credere e ben operare perché la nostra città, la nostra società, resti una realtà, mi si passi la citazione, di ‘uomini umani’ come diceva Totò. Credo, infatti, che la salda radice di fede di ebrei e cristiani sia una sorgente di umanità. E allora come non visitarsi vicendevolmente?”.