domenica 3 luglio 2011

Dottrina della Fede riconosce colpevole di abusi su minori il prete cileno Karadima, ordinato il ritiro. Il caso un vero modello di giustizia canonica

Fernando Salvador Miguel Karadima Fariña costruì una carriera ecclesiastica impeccabile. Nato ad agosto del 1930, dedicò gran parte del suo ministero presbiteriano alla formazione del clero, sempre vincolato alla parrocchia del Sagrado Corazón de Jesús, a Santiago del Cile. Ordinato sacerdote nel 1958, il suo carisma e la sua personalità gli permisero di assumere lentamente un crescente potere non solo nella parrocchia, ma anche nella Pia Unione Sacerdotale, del seminario locale. Negli anni Ottanta fu in servizio presso la Chiesa del Bosque, che divenne un intenso centro pastorale. Per la sua opera passarono decine di sacerdoti e anche i vescovi Juan Barros Madrid, vicario castrense, e Andrés Arteaga, ausiliare a Santiago del Cile. Secondo i suoi sostenitori la sua “fama di santità” era indiscutibile, quando ancora era vivo; secondo la Chiesa cilena il suo lavoro era stato esemplare. Ma la vera storia è un’altra: abuso di potere, manipolazione psicologica e pederastia. Il 22 giugno scorso, l’attuale vescovo di Santiago, Ricardo Ezzati Andrello, informò Fernando Karadima che la Santa Sede aveva deciso di rifiutare l’appello ad una sentenza contro di lui per abusi sessuali di minori. In un documento di due pagine del 18 marzo la Congregazione per la Dottrina della Fede ordinò che il sacerdote si ritirasse ad una vita di penitenza e preghiera. Gli venne vietato di esercitare pubblicamente il ministero a vita, di dirigere spiritualmente, di confessare, di avere contatti con i membri o avere qualsiasi tipo di incarico nella Pía Unión Sacerdotal. Il testo, firmato dal card. William Joseph Levada, prefetto, e Luis Francisco Ladaria, segretario, fu la conclusione del processo canonico applicato, fino alle sue ultime conseguenze; le nuove norme sulla “Delicta graviora”, i delitti gravi dei sacerdoti, approvate dal Papa a luglio 2010. Lo “scandalo Karadima” divenne un modello di giustizia vaticana per diversi motivi: perché la Dottrina della Fede prese con serietà le prime denunce ricevute nel 2010 senza considerare la posizione ecclesiastica dell’accusato; perché condusse un’inchiesta minuziosa e arrivò alla sentenza nonostante la giustizia civile avesse chiuso il caso. Infatti, i magistrati cileni dovettero riaprire le loro inchieste dopo l’avviso pubblico dell’arcivescovo di Santiago, del 18 febbraio, nel quale si annunciava la colpevolezza di Karadima decisa dalla Santa Sede. Quell'avviso, in un comunicato stampa e con la lettura della sentenza nella televisione nazionale, rappresentò un precedente inedito. Roma aveva chiesto esplicitamente che Ezzati diffondesse la sanzione, anche se si trattava di un’istanza appellabile. Immediatamente il prete fu tolto dall’incarico e portato in un monastero della capitale cilena. Il suo ambiente ricevette la notizia con sorpresa, rabbia ed indignazione, mentre l’accusato si dichiarava innocente. Contro Karadima il Vaticano decise di condurre un processo amministrativo per due ragioni: le chiare evidenze di colpevolezza e l’età dell' imputato (80 anni). Il presule ricevette un trattamento simile a quello di Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo accusato di abusi su minori. In entrambi i casi non ci fu un giudizio ecclesiastico per evitare la morte degli imputati senza arrivare ad una condanna, perché un processo penale, con le diverse istanze, sarebbe durato troppo a lungo. Nel caso del cileno la Congregazione per la Dottrina della Fede ottenne maggiori risultati e nominò un comitato di tre delegati che lo studiarono, a differenza dell’abitudine di nominarne uno solo, responsabile di consultare gli specialisti prima di proporre una sentenza. Questo non fermò l’appello presentato dai difensori di Karadima dinanzi alla “quarta corte”; la plenaria della Congregazione lo rifiutò ribadendo la colpevolezza dell' imputato. Con il voto della “Quarta corte”, la Santa Sede chiuse il capitolo ecclesiastico dello scandalo, ma restava aperto un capitolo politico. La giustizia cilena sollecitò diplomaticamente Roma a inviare i documenti dell’inchiesta canonica e la Segretaria di Stato vaticana ora dovrà decidere di rispondere affermativamente o negativamente. Un altro dei risultati dell’intervento vaticano fu il pubblico pentimento dell’arcivescovo emerito di Santiago di Cile, Francisco Javier Errazuriz, che chiese scusa alle vittime per non aver creduto alle accuse contro Fernando Karadima nel 2004. "Adesso capisco che, sopra tutto le due prime persone che accusarono, vedendo che tutto rimaneva sospeso, provarono una grandissima sofferenza. Una sofferenza che io non avrei voluto causare e per la quale chiedo perdono", affermò. Nel frattempo la giustizia civile segue il suo corso.

Andrés Beltramo Alvarez, Vatican Insider