Il dossier governativo di quattrocento pagine che accusa la Chiesa Cattolica d’aver coperto gli abusi sessuali commessi su quaranta persone da diciannove sacerdoti della diocesi di Cloyne, in Irlanda, governata dal 1987 al 2010 dal “segretario di tre Papi” John Magee ha provocato l’indignazione del governo irlandese che per voce del primo ministro Enda Kenny attacca la Santa Sede e arriva a mettere in agenda un progetto di legge che, se approvato, obbligherebbe i sacerdoti a riferire notizie su abusi di minori anche se apprese in confessione: “Se non lo facessero, rischierebbero cinque anni di prigione”, ha scritto Massimo Introvigne. Il Vaticano sta preparando una risposta alle accuse, uno statement firmato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma nelle ore più calde è mons. Gianfranco Girotti, numero due della Penitenzieria Apostolica, l’organo vaticano che da secoli assegna grazie, attribuisce dispense, sanzioni e condoni, che a Il Foglio dice la sua in merito alla proposta irlandese: “E’ assurda. E’ una proposta irricevibile”, dice. E ancora: “L’Irlanda può approvare tutti i progetti di legge che desidera, ma deve sapere che la Chiesa non si sottometterà mai all’obbligo della denuncia del confessore all’autorità civile. La confessione è una questione privata che permette al penitente di emendarsi, di purificarsi. Il segreto è condizione necessaria. Ciò non significa che i vescovi non debbano vigilare sui pedofili e, fatte le opportune verifiche, chiedere a questa gente di pagare per i propri crimini. Se però si vuole violare la confessione la risposta della Chiesa è e sarà sempre no”. Girotti parla del “sigillum confessionis”, il segreto che tempo fa era ulteriormente tutelato dal fatto che esistevano i confessionali con la grata: penitente e confessore non potevano riconoscersi, la grata permetteva al confessore di non decifrare l’identità del penitente. Nel XIII secolo fu il chierico inglese Tommaso di Chobham a scrivere in un manuale di confessione il motivo della grata, il perché della necessità di mantenere il segreto: “Il sigillo della confessione deve essere segreto perché lì il confessore siede come Dio e non come uomo”. Dice Girotti: “Nella confessione un penitente dice al confessore i propri peccati. Il confessore ascolta e anche nel caso di peccati più abominevoli della pedofilia, egli ha il dovere di assolvere qualora riconosca il sincero pentimento di chi ha davanti. La denuncia alla magistratura, il carcere, le sanzioni previste dalle leggi dello stato sono un’altra cosa. Tutti hanno il dovere di pagare il proprio conto alla giustizia per i crimini commessi, ma non spetta al confessore violare il segreto. La confessione è destinata a pulire l’anima davanti a Dio. E’ un’altra cosa. Vorrei ricordare, tra l’altro, che per il confessore che infrange il segreto del confessionale è prevista la scomunica ‘latae sententiae’ da parte della Chiesa”. L’Irlanda è indignata. Il nunzio apostolico è stato convocato dal governo. Mentre, secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Irish Independent, il 72% della popolazione sarebbe favorevole alla rottura delle relazioni diplomatiche con il Vaticano. Ma c’è un passaggio del dossier pubblicato in queste ore che indigna più di ogni altra cosa. Ed è la lettera del 1997 in cui mons. Luciano Storero, allora nunzio apostolico in Irlanda, comunicava ai vescovi irlandesi le “serie riserve” del Vaticano sul modo in cui il documento del 1995 formulava l’obbligo di denunciare alle autorità civili i casi di pedofilia. I politici irlandesi vedono nella lettera di Storero la prova che la Santa Sede chiedeva ai vescovi irlandesi di disobbedire, come ha detto il primo ministro, “alle loro stesse linee guida” del 1995 e alla legge del loro paese. In realtà la prudenza vaticana era motivata dal fatto che troppe volte preti innocenti venivano denunciati senza prove convincenti. E poi dal fatto che non solo l’obbligo di denuncia non esisteva in Irlanda, ma era una disposizione che andava a violare pesantemente la legge canonica la quale, con coloro che si macchiano di crimini del genere, prevede pene severe. In Vaticano le accuse irlandesi hanno scioccato molti. A Dublino risiede il vescovo Diarmuid Martin che all’epoca del verificarsi degli abusi prestava servizio in Curia a Roma. Martin, come hanno fatto in passato i cardinali Christoph Schönborn da Vienna e Sean Patrick O’Malley da Boston, ha accusato coloro che nella Chiesa disattendono le indicazioni del Papa in merito. Per queste accuse si è guadagnato le lodi del New York Times e della columnist Maureen Dowd. Ha detto Martin: “A Cloyne c’erano persone che hanno messo le loro opinioni al di sopra della difesa dei bambini. Paradossalmente appellandosi in qualche modo alla loro interpretazione della legge canonica si sono messi al di sopra e al di là delle regole che il Papa corrente ha promulgato per l’intera Chiesa”. Martin non è nuovo ad accuse del genere. Più volte le sue parole si sono rivolte direttamente contro chi nella Chiesa e in Vaticano ha fatto poco per arginare il problema della pedofilia. Anche per questo Martin non è amato da tutti a Roma, nella Curia romana dove diversi monsignori ricordano che ai tempi del verificarsi degli abusi anch’egli risiedeva e lavorava in Curia, anch’egli, dunque, in qualche modo la rappresentava. E’ difficile dire quando lo statement del Vaticano uscirà. Nel 2009, quando il Belgio accusò il Papa per le sue parole spese contro l’uso del preservativo durante il volo che lo portava verso il Camerun, la risposta arrivò dopo diverse settimane. Anche in questo caso la risposta non arriverà nell’immediato. Le parole, infatti, vanno studiate e ponderate oculatamente.
Paolo Rodari, Il Foglio