di Giancarlo Zizola
Nel conclave del 2005 la candidatura di Ratzinger si impose non solo per la stima universale di cui godeva la sua intelligenza teologica, ma anche perché era considerato l'uomo giusto per mettere sotto controllo i nuclei del lefebvrismo e l'ala più oltranzista della curia romana che lo appoggiava dietro le quinte. Nessuno come lui aveva la possibilità di riuscire là dove Wojtyla aveva fallito, cioè di chiudere lo scisma di Lefebvre e di sgombrare il campo dall'altra divisione storica, quella dello "scisma cinese" della Chiesa patriottica.
Su questo programma concordavano anche, a certe condizioni, i cardinali dell'ala riformista, convinti che senza disciplina non si potrebbe dare riforma. In quanto tedesco, Benedetto XVI apporta di suo a questa esigenza obiettiva di riconciliazione una speciale sensibilità per l'effetto durevole di uno scisma come quello luterano. Certamente è lontano dal ritenere che basti un decreto per medicare le ferite ed evitare danni ancora più gravi di quelli che esso pretenderebbe di sanare. Ricomporre formalmente le rotture non è sufficiente infatti ad assorbirle nei fatti: nell'equivoco sono caduti anche quegli adepti dello scisma che hanno interpretato l'atto di clemenza come un avallo dell'imperterrita verità della loro posizione antagonista.
La delicatezza di questa mossa, attesa da tempo, è tutta in una domanda: unità della Chiesa, sì, ma a quale prezzo? I Papi del post-Concilio, Paolo VI e Giovanni Paolo II, si erano incagliati su questo problema. Nel dar prova di pazienza smisurata con Marcel Lefebvre, avevano dovuto riconoscere che la pace non avrebbe avuto altra contropartita che il Concilio stesso. Temevano che la stessa "riconciliazione liturgica", il primo obiettivo dei lefebvristi, avrebbe avuto un esito destabilizzante per l'intero magistero conciliare. Lefebvre trattava pubblicamente Montini come "un Papa scismatico" e considerava il Vaticano II come una deviazione dal cammino della vera Tradizione della Chiesa. Il suo rifiuto mirava al cuore delle reali discontinuità operate dal Concilio nel suo approccio vivificante a una Tradizione dinamica: la dottrina della libertà religiosa, il dialogo con le altre religioni, il rifiuto dell'antisemitismo e del mito del "deicidio". Da "padre conciliare", Lefebvre nel 1964 era un avversario così irriducibile del progetto di dichiarazione sugli ebrei da costringere Paolo VI a rimuoverlo dalla speciale commissione mista incaricata di elaborarla per un voto che sarebbe stato quasi plebiscitario dell'assemblea.
Il vero ostacolo alla chiusura dello scisma era dunque costituito dal prolungato rifiuto dei dissidenti di accettare l'autorità del Concilio Vaticano II. Questa condizione è stata ribadita con la necessaria chiarezza anche da Benedetto XVI il 28 gennaio. Un conto è abrogare le pene canoniche inflitte con la scomunica ai quattro vescovi scismatici; altra cosa incardinarli come vescovi nella comunione della Chiesa universale, nella quale il pluralismo, se ammette espressioni diverse, ha naturalmente dei limiti. Il Papa ha gettato un ponte, ma lo scisma non si potrà chiudere se i ribelli non lo percorrono, dichiarando di accettare senza riserve l'intera ortodossia cattolica, di cui anche le decisioni del Vaticano II fanno parte integrante.
Il chiarimento pontificio ha permesso di evitare che la pace coi lefebvristi si trasformasse in una conferma dell'influenza dell'ala conservativa della Chiesa da tempo interessata a contenere l'impulso riformatore entro una lettura minimalista del Concilio e a contestarne la natura vincolante. Dato che il Cattolicesimo non può essere vissuto astraendo dal riferimento al Vaticano II, qualsiasi posizione ermeneutica, che ne esplori la continuità con il magistero precedente, non potrà spingersi d'ora in poi a sottovalutarne le conquiste innovative o a accusarne le discontinuità come "misinterpretazioni" dei testi che il Concilio ha votato, senza aprire il Portone di Bronzo al vento letale del relativismo e mettere a repentaglio in definitiva la stessa autorità pontificia.