domenica 6 giugno 2010

Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente. Instrumentum laboris (2): la testimonianza nella Chiesa e nella civitas, i rapporti con ebraismo e islam

Il terzo capitolo dell'Instrumentum laboris del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente affronta il tema della testimonianza cristiana. Si ribadisce innanzitutto “l’importanza della catechesi per conoscere e trasmettere la fede” eliminando “il distacco tra la verità creduta e la vita vissuta”: sono elencati alcuni metodi di catechesi (62-69). Per quanto riguarda la liturgia il documento riporta l’auspicio di molti per “uno sforzo di rinnovamento, che, pur rimanendo fermamente radicato nella tradizione, tenga conto della sensibilità moderna e dei bisogni spirituali e pastorali attuali”. “L’aspetto più rilevante del rinnovamento liturgico finora portato avanti consiste nella traduzione in lingua vernacola, principalmente in arabo dei testi liturgici” (70-75). Si ribadisce l’urgenza dell’ecumenismo, superando pregiudizi e diffidenze attraverso il dialogo e la collaborazione: a questo proposito “gioverà, inoltre, la celebrazione dei sacramenti della confessione, dell’Eucaristia, dell’unzione dei malati in una Chiesa diversa dalla propria, nei casi previsti dagli ordinamenti canonici”. “Due segni sono di particolare importanza: l’unificazione delle feste cristiane (Natale e Pasqua) e la gestione comune dei Luoghi di Terra Santa...nell’amore e nel rispetto mutuo”. Si condanna “decisamente il proselitismo che usa mezzi non conformi al Vangelo” (76-84). Si passano in rassegna quindi i rapporti con l’ebraismo che trovano “nel Concilio Vaticano II un punto di riferimento fondamentale”. Il dialogo con gli ebrei è definito “essenziale, benché non facile” risentendo del conflitto israelo-palestinese. La Chiesa auspica che “ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti”. Si ribadisce la ferma condanna dell’antisemitismo, sottolineando che “gli attuali atteggiamenti negativi tra popoli arabi e popolo ebreo sembrano piuttosto di carattere politico” e dunque estranei ad ogni discorso ecclesiale. I cristiani sono chiamati “a portare uno spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e l’equità per le due parti. D’altra parte, le Chiese nel Medio Oriente invitano a mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica” (85-94). Anche le relazioni della Chiesa Cattolica con i musulmani hanno fondamento nel Concilio Vaticano II. Vengono ribadite le parole di Benedetto XVI: “Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”. Si rileva che “è importante da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale”. “Le relazioni tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso, difficili – si legge nel documento - soprattutto per il fatto che i musulmani non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini, mentre essi sono cittadini di questi Paesi già da ben prima dell’arrivo dell’Islam. La chiave del successo della coesistenza tra cristiani e musulmani dipende dal riconoscere la libertà religiosa e i diritti dell’uomo”. “I cristiani sono chiamati...a non isolarsi in ghetti, in atteggiamenti difensivi e di ripiegamento su di sé tipici delle minoranze. Molti fedeli insistono sul fatto che cristiani e musulmani sono chiamati a lavorare assieme per promuovere la giustizia sociale, la pace e la libertà, e difendere i diritti umani e i valori della vita e della famiglia”. Si suggerisce “la revisione dei libri scolastici e soprattutto di insegnamento religioso, affinché siano liberi da ogni pregiudizio e stereotipo sull’altro” e si invita al dialogo della “verità nella carità” (95-99). Nella situazione conflittuale della regione i cristiani sono esortati a promuovere “la pedagogia della pace”: si tratta di una via “realistica, anche se rischia di essere respinta dai più; essa ha anche più possibilità di essere accolta, visto che la violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale”. Si tratta di una situazione “sfruttata dal terrorismo mondiale più radicale”. Il contributo dei cristiani, “che esige molto coraggio, è indispensabile” anche se “troppo spesso” i Paesi mediorientali “identificano l’Occidente con il Cristianesimo” recando grande danno alle Chiese cristiane (100-102). Il documento analizza anche il forte impatto della modernità che al musulmano credente “si presenta con un volto ateo e immorale. Egli la vive come un’invasione culturale che lo minaccia, turbando il suo sistema di valori”. “La modernità, del resto, è anche lotta per la giustizia e l’uguaglianza, difesa dei diritti”. Le scuole cattoliche cercano “di formare persone capaci di discernere il positivo dal negativo, per prendere solo il meglio”. Ma “la modernità è anche un rischio per i cristiani”: le società della regione sono infatti anch’esse “minacciate dall’assenza di Dio, dall’ateismo e dal materialismo, e più ancora dal relativismo e dall’indifferentismo...Tali rischi, al pari dell’estremismo, possono facilmente distruggere...famiglie, società e Chiese (103-105). “Da questo punto di vista, musulmani e cristiani devono percorrere un cammino comune”. I cristiani, da parte loro, devono essere consapevoli di appartenere al Medio Oriente e di esserne “una componente essenziale come cittadini”: anzi, “sono stati i pionieri della rinascita della Nazione araba” e “il loro ruolo è riconosciuto nella società” (106-108) anche se “con la crescita dell’integralismo islamico, aumentano un po’ ovunque gli attacchi contro i cristiani” (110). “Il cristiano ha un contributo speciale da apportare nell’ambito della giustizia e della pace”; ha il dovere di “denunciare con coraggio la violenza da qualunque parte essa provenga, e suggerire una soluzione, che non può passare che per il dialogo”, la riconciliazione e il perdono. Tuttavia i cristiani devono “esigere con mezzi pacifici” che anche i loro diritti “siano riconosciuti dalle autorità civili” (111-114). Il documento affronta quindi il tema dell’evangelizzazione in una società musulmana che può avvenire solo attraverso la testimonianza: ma “si chiede che essa sia garantita anche da opportuni interventi esterni”. Ad ogni modo l’attività caritativa delle comunità cattoliche “verso i più poveri e gli esclusi, senza discriminazione, rappresenta il modo più evidente della diffusione dell’insegnamento cristiano”. Tali servizi spesso sono assicurati solo dalle istituzioni ecclesiali (115-116).
Nella conclusione, il documento rileva “la preoccupazione per le difficoltà del momento presente, ma, al contempo, la speranza, fondata sulla fede cristiana”. “La storia – si legge - ha fatto sì che diventassimo un piccolo gregge. Ma noi, con la nostra condotta, possiamo tornare ad essere una presenza che conta. Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione. La conseguenza di tutto ciò è l’emigrazione, specialmente dei cristiani. Di fronte a questa sfida e sostenuto dalla comunità cristiana universale, il cristiano del Medio Oriente è chiamato ad accettare la propria vocazione, al servizio della società”. L’invito ai credenti è che “siano dei testimoni, consapevoli che testimoniare la verità può portare ad essere perseguitati”. “Ai cristiani del Medio Oriente – conclude l’Instrumentum laboris - si può ripetere ancora oggi: ‘Non temere, piccolo gregge’ (Lc 12, 32), tu hai una missione, da te dipenderà la crescita del tuo Paese e la vitalità della tua Chiesa, e ciò avverrà solo con la pace, la giustizia e l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini!” (118-123).


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