Qual è la giusta ermeneutica, la “giusta chiave di lettura e di applicazione” del Concilio Vaticano II? Benedetto XVI sottolinea che la risposta a questo interrogativo ci aiuta a comprendere perché la recezione del Concilio si sia svolta in modo così difficile in grandi parti della Chiesa. Ciò, avverte il Papa, deriva da una “ermeneutica della discontinuità” secondo la quale occorrerebbe seguire “non i testi del Concilio, ma il suo spirito”. Con ciò però, spiega il Papa, si fraintende la natura di un Concilio come tale. Esso infatti verrebbe considerato come una specie di Costituente, “che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova”. Ma la Costituente, prosegue, ha bisogno di un mandante, il popolo, e di una conferma dello stesso: “I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso”.
A questa ermeneutica della discontinuità, osserva Benedetto XVI, “si oppone l’ermeneutica della riforma”, a cui si riferì Giovanni XXIII proprio nel suo discorso d’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962. Papa Roncalli ribadiva infatti che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina senza attenuazioni o travisamenti” e che dovere dei Padri conciliari è non solo custodire il deposito della fede, ma anche approfondirlo e presentarlo “in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo”. Ecco allora, afferma il Papa, che è nell’ “insieme di continuità e discontinuità” che possiamo vedere la natura della vera riforma del Concilio: “In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole”.
Per questo, è la riflessione del Pontefice, bisogna imparare a riconoscere che, in tali decisioni, “solo i principi esprimono l’aspetto duraturo”. Così, avverte, “le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare”: “Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza”.
In definitiva, sottolinea Benedetto XVI, il “passo fatto dal Concilio verso l’età moderna” appartiene in definitiva "al perenne problema del rapporto tra fede e ragione”. Adesso, conclude, “questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta” dalla Chiesa in questo momento: “Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa”.
Radio Vaticana