"La questione centrale, sottesa alle scelte da compiere, sta ancora una volta nel tipo di rapporto che la Chiesa di Roma intende stabilire con la storia: sta, per dire più precisamente, nel suo modo di pensarsi nella storia: riconosce di farne pienamente parte, come ne fa parte il Vangelo cui si richiama, o se ne sottrae, perché portatrice, intangibile dalle contingenze umane, di un messaggio che ha saputo mantenere inviolato e inalterato nel corso di duemila anni?". Con queste parole lo storico Giovanni Miccoli sintetizza il suo lungo discorso critico nei confronti di Benedetto XVI nel recente volume "La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma" (Laterza). Una requisitoria, la sua, fondata sulla consultazione di una massa di testi e documenti e che si basa su una lettura del Concilio Vaticano II come momento di rottura di un secolare immobilismo. Con il Concilio, finalmente, la Chiesa si sarebbe messa al passo con la storia, accogliendo in quegli anni la modernità. Secondo lo studioso, quindi, la Chiesa avrebbe accettato di ridiscutere tutta la sua cultura e tutta la sua tradizione alla luce di quel cambiamento radicale che ha segnato le società occidentali del XIX e XX secolo. L’accento sulla mancata attenzione alla storia e sul rifiuto di prenderla in considerazione da parte di Benedetto XVI che, proprio a causa di questa presunta rimozione, viene accusato da Miccoli di rifuggire dalle distinzioni e quindi di indulgere a una "semplificazione banalizzante", costituisce infatti l’asse portante di questo libro. Stupisce in uno storico di vaglia, il quale, come si deduce dalle note, ha letto almeno qualche opera di Joseph Ratzinger, l’assoluta incapacità di riconoscere che il teologo oggi Papa ha sempre rivelato una straordinaria attenzione per gli aspetti storici di questioni e problemi; cercando sempre, poi, anche nei suoi interventi, di offrire un’interpretazione storica del momento che stiamo vivendo ricca di richiami all’attualità e alle sue trasformazioni. Parlare di ricerca della verità e accusare il pensiero contemporaneo di relativismo non significa certo negare la storia. Significa piuttosto dare della storia un’interpretazione che non piace all’autore del libro, ma questa è cosa ben diversa. Per Miccoli la storia sembra identificarsi soltanto con quella degli anni sessanta, cioè con la temperie culturale che è stata il contesto del Vaticano II e dei suoi documenti. Come se tutto ciò che è successo dopo, l’applicazione cioè di quei testi, ma anche il fallimento delle utopie della modernità allora predicate nella società, nonché l’emergere di nuovi gravi problemi, quali le questioni bioetiche, non fosse anch’esso storia, e non meritasse oggi attenzione e critica. E, di conseguenza, non sollecitasse uno sguardo diverso sul Concilio, diverso da quello dei suoi contemporanei. Uno sguardo storico, appunto. Così come storico è lo sguardo da portare sulle fratture e sulle opposizioni nate negli anni del Vaticano II. Il fatto che sia passato mezzo secolo da quei tempi significa ovviamente che se ne può tentare un bilancio differente, che utilizza quali elementi di giudizio non solo proclamazioni teoriche, necessariamente datate, ma anche il comportamento degli oppositori nei decenni successivi. La storia che secondo Miccoli dovrebbe entrare nei discorsi del Papa è sempre quella passata, e più precisamente quella che si svolgeva durante il Concilio e ne influenzava ovviamente le decisioni; come se soltanto gli avvenimenti che piacciono e che si condividono siano meritevoli di essere considerati storici. Gli altri devono essere archiviati come resistenze, opposizioni, immobilismi. Si tratta di una concezione della storia perlomeno discutibile, di cui è portatore non solo Miccoli, ma altri storici della Chiesa e in particolare del Vaticano II, i quali in questo modo arrivano facilmente a concludere ciò che a loro preme di più: che cioè i tradizionalisti, con il Papa in testa, sarebbero alla riconquista della Chiesa. Ma perché il modo di riflettere di Benedetto XVI, chiaramente espresso nei suoi libri e nei suoi interventi, e quindi accessibile a chiunque cerchi seriamente di capire, troppo spesso non viene letto nella sua originalità e novità? Perché ogni cosa che egli dice deve per forza rientrare nei logori schemi dei progressisti e dei conservatori, che in fondo erano stati già messi in crisi dallo stesso Papa del Concilio, Paolo VI, con la pubblicazione dell’"Humanae vitae"? È come se la schematicità della visione politica del nostro tempo facesse velo a una vera e libera interpretazione, che naturalmente può essere anche critica, di questo Pontificato che, in qualsiasi modo lo si voglia giudicare, si sta rivelando sempre più sorprendente e interessante. Gli storici ci metteranno cento anni per capirlo? Speriamo di no.
Lucetta Scaraffia, L'Osservatore Romano