sabato 16 gennaio 2010

Benedetto XVI riceve la cittadinanza onoraria di Frisinga e rievoca la sua gioventù 'macchiata' dal nazismo: Cristo è più forte di ogni tirannide

Gli anni della formazione in seminario dopo il nazismo, la convinzione che Cristo fosse “più forte di ogni tirannide”, la consapevolezza di essere “uomini nuovi” in un mondo che rinasceva dalle sue macerie storiche e spirituali. Con parole dense di commozione Benedetto XVI ha ripercorso gli anni della sua giovinezza, culminata con l’ordinazione sacerdotale, al cospetto della delegazione della città tedesca di Frisinga, giunta in Vaticano per conferire al Papa la cittadinanza onoraria. Insieme con Monaco, Frisinga compone il territorio dell’arcidiocesi bavarese che l’allora cardinale Joseph Ratzinger guidò dal 1977 al 1982, prima di essere chiamato a Roma da Giovanni Paolo II a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Gli occhi della memoria tornano per alcuni minuti a quella che il Papa chiama “geografia del cuore”. In questo panorama interiore, ha confidato alla delegazione che lo ha “commosso” concedendogli la cittadinanza onoraria, “la città di Frisinga svolge un ruolo molto particolare. Qui ho ricevuto la formazione che ha determinato la mia vita e per questo la città è sempre presente in me ed io in lei”. Un legame testimoniato dalla presenza dei simboli del Moro di Frisinga e dell’orso di San Corbiniano dapprima nello stemma episcopale e poi in quello pontificio di Benedetto XVI. Tra le tante immagini risvegliate dai ricordi, il Pontefice ha rievocato un momento a metà degli anni Quaranta del ‘900, nel primo - drammatico - dopoguerra tedesco. Il 3 febbraio 1946, dopo una lunga attesa, “il seminario di Frisinga poté riaprire le porte ai reduci; era pur sempre un lazzaretto per i prigionieri di guerra ma noi, ha raccontato Benedetto XVI, “potemmo riprendere [gli studi] e fu un momento significativo nella nostra vita: avere finalmente iniziato il percorso per il quale ci sentivamo chiamati. Visto dal punto di vista di oggi, abbiamo vissuto in modo molto ‘spartano’ e senza ‘comfort’: riposavamo nei dormitori, studiavamo nelle sale da studio, ma eravamo felici, non solo perché eravamo sfuggiti alle miserie e ai pericoli della guerra e del dominio nazista, ma perché ormai eravamo liberi. E soprattutto, perché stavamo preparandoci alla nostra vocazione”. Sapevamo, ha proseguito a braccio il Papa sul filo della memoria, “che Cristo è più forte della tirannide, della forza della sua ideologia e dei suoi meccanismi di oppressione". “Sapevamo che il tempo e il futuro appartengono a Cristo; sapevamo che lui ci aveva chiamati e sapevamo che lui aveva bisogno di noi, che c’era bisogno di noi. E sapevamo che gli uomini di questo tempo nuovo aspettavano noi, aspettavano sacerdoti che venivano con un nuovo slancio della fede per costruire la casa viva di Dio”. Ricordando gli insegnanti del suo vecchio Liceo - che lo vide prima studente e poi docente - Benedetto XVI ha detto: “Non erano solo ‘professori’, ma soprattutto ‘maestri’”, che non “si limitavano ad offrire le primizie della loro specializzazione”, ma il cui “scopo principale” era quello di radicare la fede negli studenti rendendoli capaci di “tramandarla in un’epoca nuova con nuove sfide”. Certezze intime che si riannodano all’intimità spirituale più personale per un sacerdote, quella del giorno della sua ordinazione. Di quel 29 giugno 1951, Benedetto XVI ha rievocato l’immagine di se stesso, sdraiato sul pavimento davanti all’altare, mentre vengono intonate le litanie dei Santi: “Quando sei lì, supino, sei consapevole una volta di più della tua miseria e ti chiedi: ma sarai poi veramente capace di tutto ciò?…Poi, l’imposizione delle mani…è stata profonda e significativa, per noi tutti. [Avevamo] la consapevolezza che fosse il Signore stesso ad imporre le sue mani su di me a dire: tu appartieni a me, non appartieni più semplicemente a te stesso: io voglio te! Tu sei al mio servizio!”. Una nuova dissolvenza e i ricordi del Papa hanno toccato i “tre anni indimenticabili” assieme ai genitori trascorsi nel Lerchenfeldhof, il “casale delle allodole”, che, ha ammesso, “hanno fatto sì che sentissi Frisinga veramente come ‘casa mia’”, immerso nella rigogliosa natura circostante. Poi, ancora, le torri della città che svettano dal Domberg, la collina sulla quale sorge il Duomo. Quelle torri non lontane dall’aeroporto di Monaco, “indicano - ha suggerito Benedetto XVI - un’altitudine diversa da quella alla quale possiamo assurgere con l’aereo: indicano l’altitudine vera, quella di Dio, dalla quale proviene l’amore che ci fa diventare uomini, che ci dona il vero ‘essere umani’”. Il Duomo indica pure “la via” e “l’ampiezza” della vita divina, perché oltre a custodire “secoli di fede e di preghiera”, in esso è presente “tutta la comunione dei Santi, di tutti coloro che prima di noi hanno creduto, pregato, sofferto e gioito”. Un’ampiezza, ha concluso il Papa, “che va al di là della globalizzazione, perché nella differenza e nella contrapposizione delle culture e delle origini dona la forza dell’unità interiore, ci dona quello che ci può unire: la forza unificante dell’essere amati da Dio stesso”.

Radio Vaticana