Edward Pentin, Zenit
mercoledì 3 febbraio 2010
Il card. Turkson e il futuro del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace da lui guidato: i dicasteri esistono per aiutare il Papa nella sua missione
Il card. Peter Kodwo Appiah Turkson (foto) è ora il più anziano prelato africano della Curia romana. Due settimane fa, l’arcivescovo di Cape Coast, Ghana, di 61 anni, ha ricevuto l’incarico di presiedere il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al posto del card. Renato Martino, che si è ritirato per motivi di età. Parlando con lui, martedì 26 gennaio, nei suoi uffici di Trastevere a Roma, ha sottolineato che è ancora troppo presto per presentare i suoi piani per il dicastero, ma ha comunque dato qualche indicazione sulla sua futura direzione. Attingendo al suo background africano ha espresso l’auspicio di poter apportare al lavoro del Consiglio quel “grande senso di solidarietà” del continente. Uno dei temi principali del Sinodo per l’Africa dello scorso anno, del quale è stato Relatore generale, era “un senso comune di fratellanza dell’umanità” che, ritiene, “sarà utile per creare comprensione e giungere al perseguimento del bene comune”. Come suo secondo grande contributo auspica di poter apportare un forte senso di giustizia, forgiato attraverso la sua esperienza di vita in Africa, dove i Paesi sono da tempo caduti vittima di governi ingiusti o dello sfruttamento straniero. “Se potessimo vedere questo aspetto, se questo aspetto potesse essere migliorato, l’instaurazione della pace ne gioverebbe molto, perché vi è molta gente in Africa che se lo augura”. L’arcivescovo non ha voluto rivelare altre linee programmatiche, preferendo trarre spunto dalla leadership di Benedetto XVI. Infatti, uno dei primi compiti che si è imposto è quello di incontrare il Santo Padre per chiedergli della sua visione sul Consiglio. “Riconosco che lui è il Capo e che tutti i Dicasteri esistono per aiutarlo a svolgere la missione e il ministero della Chiesa”, afferma. “Quindi non vorrei che nulla dei miei programmi si discosti dai suoi”. Si propone poi di visitare tutti i presidenti dei dicasteri insieme al suo vice, il vescovo Mario Toso, anch’egli relativamente nuovo nel dicastero. In sintesi, spera di costruire su ciò che il card. Martino ha già ottenuto: “Mi perdonino gli africani questa espressione, ma non vorrei mai diventare come un Capo di Stato africano”, scherza. “Quando si insedia un nuovo governo, spazza via tutto ciò che ha fatto quello precedente, accusandolo di corruzione. Invece, io desidero mantenere un senso di continuità, per scoprire ciò che è stato fatto e quanto si è andati avanti”. Nato da madre metodista e padre cattolico a Wassaw Nsuta, nel Ghana occidentale, il card. Turkson ha studiato al seminario St. Anthony-on-Hudson di New York, prima di essere ordinato sacerdote a Cape Coast nel 1975. Ha proseguito gli studi svolgendo il dottorato presso il Pontificio Istituto biblico di Roma, prima di essere nominato Arcivescovo di Cape Coast nel 1992. Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale nel 2003, all’età di 55 anni, diventando uno dei più giovani membri del Collegio cardinalizio. Con la nomina a Relatore generale del Sinodo per l’Africa dello scorso anno, è stato segnalato da molti come un prelato in forte ascesa. Alcuni hanno persino parlato di lui come un serio concorrente per il papato e possibile primo Papa nero. Ride a questa allusione e ripete ciò che aveva detto a una conferenza stampa durante il Sinodo: che quando un sacerdote accetta la sua vocazione, deve accettare anche la possibilità di diventare un giorno vescovo o cardinale. Se questo significa che un sacerdote africano diventi Papa, “perché no?”, si chiede. Ma non ritiene che sia necessariamente probabile, conscio del fatto che il mondo è ancora “abbastanza sensibile” al colore della pelle. “Come ha detto Eli nel libro di Samuele – aggiunge – Dio è Dio e farà ciò che a Lui par bene, pertanto lasciamolo a Lui”. Due temi concreti, probabilmente, saranno nei prossimi anni al centro dell'attenzione del dicastero presieduto dal card. Turkson. Il primo è il modo in cui i governi e il mondo della finanza intendono rispondere alla crisi economica e in che misura l’Enciclica sociale di Benedetto XVI "Caritas in veritate" verrà seguita dai leader mondiali; il documento sottolinea che alla base dell’attuale crisi vi è l’assenza di moralità, di etica e di verità. Sebbene a suo avviso è troppo presto per dire se le riforme che vengono attuate si pongono in linea con la "Caritas in veritate", la sua convinzione è che la gente sta prestando ascolto. “Ciò che posso dire per certo è che l’interesse dei governi del mondo, di prestare attenzione alle parole del Papa, si è rafforzato molto ultimamente”, afferma. “Questo interesse è per me forse la cosa più positiva: qualcuno finalmente è disposto ad ascoltare”. Riconosce, tuttavia, che il fatto che poi si agisca concretamente alla luce delle affermazioni del Papa è un’altra questione ancora, ma almeno l’attenzione è alta. Un secondo tema che sarà fondamentale è quello dell’ambiente. Un argomento oggetto di grande attenzione da parte di Benedetto XVI. Non crede che il Santo Padre stia elaborando una “nuova teologia” dell’ambiente, come qualcuno ha suggerito. “Si tratta piuttosto di adottare una coscienza ambientale”, afferma. Il cardinale sottolinea che la parola chiave che unisce la "Caritas in veritate" al Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, che collega la cura per l’ambiente con la pace, è “solidarietà”. “Finora era normale riferirsi al senso umano di cura per il creato. Era questo il modo religioso o teologico di presentare la questione”, spiega. “Adesso è la solidarietà: che la nostra vita sulla terra dipende tanto dalla terra quanto da noi stessi. Pertanto, è come un tipo di rapporto simbiotico che noi dobbiamo apprezzare ora più che mai”. Il card. Turkson rifiuta poi ogni idea secondo cui la giustizia sociale sarebbe una preoccupazione prevalentemente di sinistra, considerandola come un retaggio della Teologia della liberazione degli anni ’60 e ’70. “Seguendo l’intuizione del Concilio Vaticano II per questo dicastero, il suo compito è di riflettere e tradurre la dottrina della Chiesa sui temi sociali”, afferma. “Penso che sia un punto di vista molto valido, a cui questo ufficio cerca di dare attuazione e, in questo senso, non lo vedo come un programma di sinistra”. Allo stesso tempo ritiene necessario “stare in allerta e vigiliare affinché non venga strumentalizzata” da ideologie politiche. Questo ci porta a una delle maggiori preoccupazioni del cardinale: la scarsa catechesi in Africa, sia dei laici che dei sacerdoti, che tende a impegnare la mente ma non il cuore, portando quindi alla superficialità. Il Cristianesimo – sottolinea – ha a che vedere con un evento, un’esperienza e in ultima analisi con una conversione. Troppo spesso – afferma – la catechesi è stata svolta limitando Gesù a informazioni e idee, anziché a insegnamento ed esperienza personale. La fede è spesso insegnata a memoria e questo – teme – ha le sue conseguenze. “Possiamo concludere che abbiamo gente nei seminari che non ha mai fatto un’esperienza reale di Gesù; che ha solo una nozione di un qualche Gesù, e questo è destinato a perpeturarsi”, lamenta. “Non puoi dare ciò che non hai”. Osservo che forse questo è anche un problema dell’Occidente. “Non volevo dire questo!”, ride, “ma questo potrebbe ben essere l’origine della crisi che abbiamo dalle nostre parti”. I cattolici che non hanno fatto l’esperienza di Gesù in questo modo, ma che si basano meramente sulla ragione, hanno più probabilità ad essere persuasi da un’altra persona “che sembra più convinta e più logica”, sostiene. La sua fermezza nella fede e nella ragione e la sua consapevolezza della necessità della solidarietà, fanno ben sperare per la sua futura collaborazione con il Santo Padre. Se a ciò si aggiunge la sua apertura, la sua franchezza e il suo buon umore, il card. Turkson appare foriero di buoni auspici come nuovo Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.