E’ attesa nelle prossime ore, probabilmente domani mattina, la risposta ufficiale del Vaticano al governo irlandese che il 20 luglio scorso, per voce del primo ministro Enda Kenny, aveva lanciato “un attacco senza precedenti”, come lo definì Avvenire, alla Santa Sede, “accusando pesantemente il Vaticano di non aver affrontato a dovere lo scandalo degli abusi sessuali commessidai preti pedofili”. Le critiche vennero formulate nel corso di un dibattito parlamentare su un report relativo alla diocesi di Cloyne, nel quale si imputa alla Chiesa di aver reagito in modo inappropriato di fronte alle accuse di violenze nei confronti di diciannove esponenti religiosi. Le richieste irlandesi a Roma sono molteplici. Tra queste, una particolarmente “irricevibile”, come l’hanno definita prima mons. Gianfranco Girotti, numero due della Penitenzieria apostolica, e successivamente Sean Brady, primate d’Irlanda. Si tratta del progetto di legge che, se approvato, obbligherebbe i sacerdoti irlandesi a riferire notizie su abusi di minori anche se apprese in confessione. Una ingerenza del potere secolare nella sfera di autonomia della Chiesa come non si vede in occidente da secoli, sintomo di un più profondo contenzioso che si va delineando tra diritto canonico e leggi civili. Lo statement vaticano entra nel merito delle accuse senza accennare a decisioni riguardanti il futuro dei vescovi irlandesi e la possibilità che coloro che sono stati nominati prima del 2003 si dimettano. Il Vaticano si concentra su quanto, seppur a titolo personale, il portavoce padre Federico Lombardi aveva già accennato lo scorso luglio: “Non vi è alcuna ragione per interpretare, come fa il report governativo, una lettera del nunzio in Irlanda del 1997, citata nel rapporto Cloyne, ‘come intesa a occultare i casi di abuso’. Allo stesso tempo non vi è assolutamente nulla nella lettera che suoni come un invito a non rispettare le leggi del paese”. Anzi “le obiezioni a cui faceva riferimento la lettera circa un obbligo di informazione alle autorità civili (‘mandatory reporting’), non si opponevano ad alcuna legge civile in tal senso, perché essa non esisteva in Irlanda a quel tempo (e le proposte di introdurla sono state oggetto di discussione per diversi motivi nello stesso ambito civile). Risulta perciò curiosa la gravità di certe critiche mosse al Vaticano, come se la Santa Sede fosse colpevole di non aver dato valore di legge canonica a norme a cui uno stato non aveva ritenuto necessario dare valore di legge civile”. La risposta della Santa Sede è tipica della linea che la diplomazia d’oltretevere ha mantenuto da quando Joseph Ratzinger è salito al soglio di Pietro: collaborazione e insieme disponibilità a riconoscere i propri errori, ma nessun cedimento di fronte alle pretese degli stati i cui governi, anno dopo anno, si mostrano sempre più ostili verso la Chiesa Cattolica. Una linea, questa, che ha mandato in soffitta ciò che ancora restava di quella leva diplomatica che fino alla prima metà del pontificato wojtyliano ancora era in auge, e che trovava una sua applicazione particolare nella Ostpolitik: l’idea che con i governi prima di difendersi fosse opportuno trattare. Perché questo cambiamento di rotta? Un dato emerge. E’ oggi che, come non avveniva in passato, i paesi che sulla carta dovrebbero essere amici divengono ostili, inimicati dalla politica “non conformata alla mentalità del secolo” che caratterizza la Chiesa fedele al Vangelo. Il governo irlandese, pur lamentando legittimamente gravi errori commessi dai vescovi locali, è l’ultimo interprete di questa ostilità. Ai tempi di Wojtyla era impensabile che l’Inghilterra si mostrasse più amica di Roma della cattolica Irlanda. Come era impensabile che paesi retti da democrazie moderne attaccassero pancia a terra il Papa per le sue idee in materia di educazione sessuale: fu nel 2009 che il Parlamento del Belgio, paese dall’importante tradizione cattolica, approvò una mozione contro le affermazioni di Papa Ratzinger sull’Aids e i profilattici durante il viaggio in Camerun e Angola del 2009. Il Vaticano rispose rispedendo almittente le accuse. E sempre in Belgio è avvenuto il grave sfregio della violazione delle tombe dei cardinali da parte della magistratura dello stato. Ma il cambiamento della diplomazia d’oltretevere è figlio anche del nuovo pontificato. E’ un fatto che Benedetto XVI sia meno appassionato ai temi della geopolitica rispetto al suo predecessore. Predilige illuminare con le parole e la preghiera la vita della Chiesa piuttosto che intervenire con una diretta azione politica sulle questioni inerenti i rapporti con gli stati. Per l’Irlanda, il Papa ha ad esempio lasciato che fosse la Segreteria di Stato a formulare lo statement che verrà reso pubbliconelle prossime ore. Anche perché la sua parola, più alta e diversa, l’ha già data con la Lettera ai cattolici irlandesi dove ricorda come i peccati dei preti chiedano anzitutto alla Chiesa “penitenza” e “conversione”. Se molto è cambiata la diplomazia vaticana dai tempi di Wojtyla a oggi lo si deve anche alla decisione del Papa che, all’inizio del pontificato, non portò al suo fianco un diplomatico di carriera, ma un uomo dal profilo pastorale, il card. Tarcisio Bertone. In molti allora si domandarono cosa stesse succedendo. Massimo Faggioli, docente di Storia del cristianesimo moderno all’Università San Tommaso nel Minnesota e discepolo di quella dossettiana scuola bolognese da sempre estimatrice dell’Ostpolitik casaroliana, in un saggio intitolato “La politica estera della Santa Sede” si domandò se la linea meno politica e più religiosa della diplomazia fosse dovuta solo a “prudenza” dei “primi mesi del nuovo pontificato”, o invece alla “scelta di un profilo radicalmente diverso, più religioso e spirituale, e meno politico”. Ma oltre all’atteggiamento della Chiesa, a essere progressivamente cambiato, soprattutto a partire dall’inizio del nuovo millennio, è il contesto internazionale, dove gli anni del trionfalistico “ritorno del sacro” dopo la morte delle ideologie sembrano ormai essere un ricordo lontano. Massimo Introvigne, rappresentante dell’Osce per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e ladiscriminazione, pur riconoscendo la diversità di approccio di Papa Ratzinger rispetto a Wojtyla non crede che “le nuove leve della diplomazia vaticana abbiano portato un cambiamento di linea. Anche perché la qualità è sempre alta. Il cambiamento piuttosto avviene fuori dalla Chiesa. Oggi, più che qualche decennio fa, la lettura anticonformista della realtà offerta dalla Chiesa disturba. E con i governi disturba le lobby che lavorano per escludere la Chiesa dall’influenza pubblica. La Chiesa, in sostanza, deve smettere di mettersi in mezzo, di dire la sua in merito alla ricerca sulle cellule staminali, sull’educazione sessuale, sull’aborto, l’eutanasia, la famiglia. La Chiesa, secondo queste persone, deve smettere di disturbare. E’ il mondo che è cambiato, che si è ferocemente secolarizzato”. Di qui lo scontro con paesi che dovrebbero essere amici. Non si tratta più di governi di destra o di sinistra: “L’odio verso la Chiesa è trasversale. In Irlanda al governo c’è la destra”. Nel dibattito avvenuto un anno fa tra Charles Taylor e Christoph Schönborn venne fuori che l’idea di espellere la Chiesa dalle decisioni che contano dei governi è antica e risale ai tempi di Marsilio da Padova del ’400: “Ma di certo oggi l’assalto è più feroce: sembra d’essere quasi a un assalto finale”. Il lavoro diplomatico è cambiato con Papa Ratzinger. Non è indifferente il fatto che i nunzi vengano ricevuti dal Papa soltanto all’inizio e alla fine del loro mandato e non con maggiore frequenza, come avveniva prima. Eppure, quando lo scorso gennaio il Papa ricevette il corpo diplomatico accreditato Gianni Cardinale su Avvenire sottolineò come sia oggi aumentato “il numero di paesi che intrattengono rapporti diplomatici con la Santa Sede”. Come svelato dai cablogrammi diffusi da Wikileaks, “l’ambasciata Usa in Vaticano in vista della visita di Obama sottolineava come la Santa Sede fosse seconda solo agli Usa per numero di paesi con cui intrattiene rapporti diplomatici”. Quanti? Con Papa Ratzinger sono divenuti 178. Ma al di là dei risultati numerici è innegabile che oggi le crisi diplomatiche a cui il Vaticano deve far fronte sono molteplici e non provengono solo da paesi ostili come può essere la Cina. Le crisi si verificano anche con le democrazie occidentali. Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, riconosce che “oggi molti paesi considerati amici della Chiesa non lo sono più, anche a motivo della forte secolarizzazione che ha investito l’occidente, e dunque molte delle crisi che questi paesi hanno con il Vaticano provengono anche dall’avanzare di questo fenomeno”. Certo, dice, “è cambiata anche la diplomazia vaticana, i suoi protagonisti e le sue linee d’azione. Oggi, in qualche modo, sembra che il Vaticano abbia meno interesse alle problematiche diplomatiche. Il Papa punta molto sulla forza del Magistero, richiama i fedeli alla verità, possiamo dire che illumina con la parola e l’esempio, il che non è ovviamente in contraddizione con una buona diplomazia, seppure è innegabile che l’attenzione è maggiormente riservata ai princìpi piuttosto che alla mediazione. E poi, rispetto al passato, la diplomazia della Chiesa è influenzata maggiormente da prospettive imposte dalla diplomazia internazionale, soprattutto occidentale, ad esempio sul terreno dei diritti umani e della libertà religiosa”. Che congli stati occorra sempre trattare era convinzione di Casaroli. Dice Giovagnoli: “Non separerei Casaroli da una tradizione che cominciò molto prima di lui, basti ricordare il card. Pietro Gasparri e successivamente il cardinale Domenico Tardini. Certo, a volte c’era un eccesso di fiducia negli interlocutori, ma comunque i risultati arrivarono. Oggi credo che parte di questa tradizionepossa tornare utile seppure i nemici, o gli interlocutori, sono cambiati”. Quali sono oggi i fronti più problematici? “Penso alla Cina, dove credo che le armi tradizionali possano ancora avere un senso. Penso ai paesi a maggioranza islamica. E penso poi alle sfide delle democrazie occidentali, al cuore dell’Europa dove a volte lo scontro è aspro”.
Paolo Rodari, Il Foglio