venerdì 2 novembre 2012

Tommaso Spinelli a 'La Vigna del Signore': il Sinodo una grande famiglia riunita per un'occasione importante. Non dobbiamo aver paura di esser cristiani, e primi tra tutti i sacerdoti non devono temere di esserlo autenticamente

Si chiama Tommaso Spinelli, ha 23 anni, e in qualità di 'uditore' è stato il più giovane partecipante alla XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema "La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana". "Dopo aver seguito per tre anni gruppi di adolescenti nel cammino post cresimale - racconta in un'intervista esclusiva a La Vigna del Signore - da quest’anno ho un incarico di ambito diocesano come catechista di giovani catecumeni con l’ufficio catechistico del Vicariato di Roma diretto da mons. Andrea Lonardo". "A dicembre diventerò dottore in lettere classiche con una tesi di paleografia latina su un codice inedito di Papa Sisto IV della Rovere", il Pontefice della Cappella Sistina. "La mia aspirazione di vita - confida Spinelli - è divenire un buon mix dell’audacia e corposità di Guareschi e della dotta astuzia di Chesterton. Amo la letteratura, l’arte e i libri di qualsiasi tipo, ma meglio se antichi e scritti a mano. Vorrei diventare docente di letteratura antica". "Faccio parte di quei cristiani che impegnandosi ogni giorno nella pastorale di strada non disprezzano la sera, chiusa la porta, di aprire la ‘liturgia horarum’ in latino e alzare al cielo qualche ‘Pater, Ave e Gloria’. E credo che sia questo mix di tradizione e modernità che ispira la mia vita pastorale, e non".
Com'è stata la tua esperienza al Sinodo dei vescovi? Cosa ti ha lasciato?
L’esperienza del Sinodo è stata molto diversa da come me la aspettavo. Quando si viene convocati la prima volta all’interno della Città del Vaticano in un ceto internazionale di vescovi e cardinali si ha più che altro un po’ di sana soggezione, mi aspettavo un ambiente molto “chiuso” in cui sarei rimasto per forza di cose ai margini. La sorpresa invece è stata proprio vedere sin dal primo giorno una grandissima cordialità. Lo spirito che c’era era quello di una grande famiglia riunita per un’occasione importante. I vescovi erano visibilmente contenti di stare tra fratelli, di scambiare idee, opinioni e, perché no, di scherzare. Questo clima di profonda simpatia ed unità ha fatto si che io potessi sentirmi loro fratello in tutto. Le mie parole sono sempre state ascoltate con grande attenzione, mai superficialmente. Ciò che porterò con me è l’immagine che vedevo ogni mattina alle nove in punto quando il Papa entrava e senza dire altro intonava “Deus in auditorium meum intende”, e tutti i vescovi da ogni parte del mondo si univano nella preghiera. Questo spirito di simpatia, di sguardo sereno ma deciso verso il mondo, di grande cordialità ha cambiato molto la mia percezione di Chiesa. Mi ha dato vigore come catechista e come cristiano. Il motivo principale per cui torno contento dal Sinodo è l’aver visto una Chiesa veramente bella a servizio dell’uomo. Condivido su questo aspetto un piccolo dettaglio che spero mi sarà perdonato: l’umiltà enorme del Santo Padre, che ogni volta che poteva, talvolta anche se stanco, arrivava in aula ad occupare la presidenza del Sinodo e si faceva fratello tra i fratelli, facendosi dare i fogli degli interventi e seguendo attentamente e, usando l’avverbio latino“studiose”, i discorsi.
In che modo sei stato scelto come Uditore dell'Assemblea sinodale? Quale è stata la tua prima reazione quando ti è stata comunicata la nomina?
Ovviamente a ventitré anni aprire una busta e trovare dentro una pergamena filigranata “Officia Sanctae Sedis” con la nomina del Papa fa un certo effetto. Il Sinodo mi era stato proposto come possibilità qualche mese prima. La Chiesa nella sua sapienza ed umiltà voleva che un giovane partecipasse ai lavori del Sinodo: questa credo sia una lezione da cui molti dovrebbero imparare, credo che oggi raramente le istituzioni siano interessate realmente a sentire ciò che ha da dire un ragazzo di 23 anni. Loro non soòo hanno avuto la voglia di invitarmi, ma mi hanno anche accolto con una sincera gioia. E mi permetto di dire che se quel clima di apertura, di gioia, di sguardo centrato sull’uomo e non sull’economia divenisse proprio anche della politica forse la crisi passerebbe assai prima. Ad ogni modo non sono stato scelto per avere qualche merito particolare, facevo da anni il catechista, avevo una buona conoscenza della lingua latina - che si è rivelata assai utile, devo dire! - e mi è stato fatto questo regalo di poter vedere la Chiesa nel suo vivere.
Il tuo è stato uno degli interventi più apprezzati dei tanti letti nell'Aula, perchè franco e diretto. Da cosa sono nate le tue parole? Come sono state accolte all'assise?
Il mio intervento, che per molti giorni ho pensato di non pronunciare proprio perché mi pareva forse troppo diretto, nasce da considerazioni che io da molto tempo avevo dentro. Prima di tutto nasce da un fatto letterario: sono un grande amante di Guareschi e sin da piccolo la mia pietra di paragone per confrontare un prete è don Camillo. Parrà ingenuo ma tutti noi viviamo di modelli, quello di prete per me è don Camillo. Guareschi aveva tracciato i contorni di un sacerdote solido nella sua fede, che non temeva il dialogo anche con i suoi avversari perché aveva ben chiara la propria identità, e la aveva chiara al punto di pensare che la fede fosse così vera che anche quelli che la negavano in fondo in fondo credessero in Dio. Questo era il segreto di don Camillo, tu puoi anche credere che Dio non ci sia, ma di fatto c’è...e a partire da questa certezza non c’erano veri nemici, non c’erano veri odi, c’erano solo compagni di viaggio con la testa un po’ più dura. In questo piccolo mondo guareschiano don Camillo era parroco di tutti, soprattutto di quei comunisti che formalmente avversavano la sua opera pastorale. Mi si dirà: ma quello era un film e di un’epoca diversa, oggi siamo in crisi. E’ vero, dobbiamo trovare linguaggi nuovi, ma come disse il Cristo a don Camillo che si lamentava per la secolarizzazione, “quando il fiume rompe gli argini bisogna fare come fa il contadino, salvare il seme”. Questo seme è la nostra innata fiducia verso il mondo creato da Dio, è la nostra serena sicurezza che ci deriva dalla promessa della vittoria fattaci da Gesù. Si le acque esonderanno, venti contrari si alzeranno, ma “Non prevalebunt!”. Con questo sguardo guardo alla nuova evangelizzazione. Siamo in un periodo secolarizzato, così come pagana e secolarizzata era la società in cui San Paolo si mise in cammino per portare la fede. Eravamo dodici e ce l’abbiamo fatta, ho buoni motivi per supporre che Dio non ci toglierà il suo aiuto neanche oggi! Il mio intervento voleva solo tradurre in maniera più pragmatica molte istanze uscite dal Sinodo. Di fondo c’è l’idea che non dobbiamo aver paura di esser cristiani, e primi tra tutti i sacerdoti non devono temere di esserlo autenticamente, non devono sentirsi in imbarazzo nel dire che il senso della vita è il paradiso, che ci sono realtà più importanti di quelle terrene. Non devono cioè aver paura di dire cose che al mondo non piacciono, perché sembrano non piacergli ma in realtà sono le uniche cose che toccano veramente la fame d’infinito che l’uomo ha dentro. Sono certo che se troviamo il coraggio di riannunciare la fede la fede si diffonderà in questo mondo assai rapidamente. Il problema è come fare ciò. Ebbene a don Camillo bastava sapere un po’ di latino e di grammatica, qualche nozione di organo per esser tenuto in stima anche dai compagni di Peppone. Oggi purtroppo o per fortuna non basta più, e mentre il mondo affina strumenti culturali sempre più rilevanti, mentre l’istruzione media cresce e porta a porsi domande sempre più complicate ed il demonio raffina sempre più l’astuzia di quelle stesse domande che per primi illusero Adamo ed Eva (altro tema, la Genesi, di cui noi ci vergogniamo di parlare perché non sappiamo più spiegarne il senso vero e profondo che da luce al nostro mistero antropologico), noi abbiamo perso forse anche quel po’ di latino e di organo che avevamo. Mi spiego, per non creare malintesi: la formazione universitaria dei sacerdoti è progredita, ma spesso è slegata dalla realtà e dalla pastorale. Manca il ponte per legare quelle nozioni ad un loro pratico impiego e così in poco tempo vanno perse o peggio dimenticate. Tornare ad una cultura più solida e a tutto tondo che si preoccupi dell’uomo, che sia cultura umanistica in senso letterale, che sappia permeare la pastorale, l’omiletica, l’’ars celebrandi’, favorirebbe un incontro più maturo con l’uomo del nostro tempo che orai ci considera come coloro che raccontano favolette irragionevoli a cui non credono manco più loro. E di questo la colpa temo sia nostra, la fede non ha perso la sua attrattiva, Cristo affascina e il mondo anche non credente ce lo testimonia, ma il nostro modo di proporlo talvolta lo semplifica lo riduce ad una favoletta per bimbi. Un uomo maturo spiritualmente e culturalmente potrà invece annunciarlo con forza, e mostrarlo come una scelta seria sensata e credibile. Tornare ad essere formati è prima di tutto un servizio che dobbiamo ad un mondo che sente la nostra mancanza e che ha bisogno della nostra cultura umanistica prima che combini qualche irreparabile macello. La cultura è anche identità e tutti cominciamo a sentire quanto ci sia bisogno in questo mondo multiculturale di ritrovare la nostra autentica identità. Ma questo non basta, la cultura non è tutto, è solo un mezzo uno strumento per rendere al mondo le ragioni di ciò in cui crediamo. Scrive mons. Fisichella nel suo libro sulla Nuova evangelizzazione che noi non vogliamo avere l’applauso per tutti i progressi che abbiamo portato nel corso di secoli nella società europea, ma non vogliamo neanche che altri si approprino di essi per strumentalizzarli, ed in questo ci serve una buona preparazione. Ma il cuore di tutto è quel dialogo diretto che don Camillo ha con il Cristo dell’altare maggiore, che tal volte lo rianima e talvolta lo ammonisce, ma da sempre una certezza: lui è li e se c’è da dire una parola non si tira indietro al punto che anche il suo silenzio dice qualcosa. Tornare alla preghiera, al rispetto delle ore della ‘liturgia horarum’, allo scandire con le campane le ore che passano. Dice un Salmo: “Tota die contemplatio mea est”; mi colpiva nei miei studi latini che nell’antico ‘Breviarium romanum’ ci sono preghiere per ogni momento della giornata, addirittura per quando si camminava da un luogo all’altro. E qui mostro come la mia non sia una passione erudita per lo studio, la preghiera va bene anche semplice, l’uomo sapiente deve farsi semplice e profondo come un bambino quando prega. Nella diocesi di Roma c’è un’iniziativa di mini-catechesi in video su YouTube per aiutare i papà a spiegare la fede ai figli che si chiama proprio “Le domande grandi dei bambini”. Ecco questo bel connubio di sapienza e cultura che proprio perché autentiche si mescolano a grande umiltà, a profonda carità, infinità ricerca di bontà. Anche la liturgia non deve aver paure di recuperare la sacralità. Il Concilio ci ha detto di mostrare a tutti i fedeli la bellezza della liturgia, non di smontare la liturgia. Riuscire a mostrare la bellezza della liturgia non vuol dire semplicisticamente fare una cosa per bambini, una cosa fatta di canzoncine, mani plaudenti, abbracci. Vuol dire introdurre gli uomini del nostro tempo in una realtà che ci è stata data da Dio e che nessuno di noi può cambiare. Ultimo punto la territorialità. Mi viene in mente l’alluvione del Po’, il paese che viene sfollato, tutti vanno via, tranne uno: don Camillo. Dice ai fedeli: “ Voi andate, io resto qui per portare a tutti voi con la voce delle vostre campane il lieto annuncio del risveglio”. Ebbene sì don Camillo è pronto al martirio. Mi viene in mente Pio XII che fu l’unico a non abbandonare Roma e a trattare con i nazisti perché non la distruggessero andando via e rischiando i bombardamenti degli americani che arrivavano. Questo è un pastore, colui che non abbandona il gregge quando arrivano i lupi o le acque alte del secolarismo. E i nostri pastori devono sapere di esser pastori di tutti. In questo le campane ci insegnano molto. Quando suonano, suonano per tutti, e così è della vita del prete che risuona per tutto il territorio e per tutti, a servizio di tutti. Verrà da chiedersi: come faremo tutto questo? Con l’aiuto di Dio, e della Chiesa che ci da uno strumento prezioso come il Catechismo della Chiesa Cattolica, che invito tutti a comprare e soprattutto a studiare. Le diocesi dovrebbero rilanciarne lo studio, soprattutto delle prime sezioni, li dove i documenti del Concilio spiegano perché l’uomo crede, perché Dio si è rivelato, perché siamo felici quando ritroviamo nei 10 comandamenti la nostra somiglianza con Dio. E’ un discorso immenso, ma invito tutti coloro che leggono ad andare dal proprio parroco e chiedere di fare incontri sul Catechismo della Chiesa Cattolica!
Il Sinodo, come punto di partenza per la nuova evangelizzazione, ha raggiunto il suo scopo? Secondo te, si poteva osare di più?
Il Sinodo ha applaudito molto il mio intervento, prova del fatto che quando non abbiamo paura di osare le cose vanno bene! I documenti del Sinodo sono molto belli, ma il Sinodo è solo l’inizio, nella sua universalità è molto generico, ora starà ai vescovi e ai parroci metterlo in prati con iniziative molto pratiche per evitare che il grande lavoro vada perso. A Roma l’ufficio catechistico ad esempio sta organizzando incontri di formazione sulla Genesi e sul Credo, catechesi per le famiglie a cui accennavo prima, e forse servirebbe una parte dedicata esplicitamente al catechismo della chiesa cattolica che forse è già in progetto. Ad osare di più dunque dobbiamo esser noi, ricominciando a pregare, a sperare e ad amare in un mondo che non conosce più queste parole ma che ne ha un disperato bisogno! Buon lavoro, che Dio ci accompagni!