di Marco Bongi
Si avvicina il termine del quinto anno di Pontificato di Papa Benedetto XVI felicemente regnante. Cinque anni sono un nulla nella storia bimillenaria della Chiesa e anche se si considerano le dimensioni temporali di taluni papati, come quello del predecessore Giovanni Paolo II, possono apparire un periodo del tutto insufficiente per un giudizio storico. Ritengo tuttavia che un lustro possa bastare, in un ottica puramente umana, ad abbozzare una prima analisi delle continuità e differenze che stanno caratterizzando lo stile ed il governo dei due ultimi successori di Pietro. Proverò dunque, nelle poche righe che seguono, a proporre alcune linee di lettura lasciando comunque, subito dopo, ad analisti ben più autorevoli del sottoscritto, il compito di tirare le conclusioni più appropriate. Tutti sanno che Benedetto XVI e Giovanni Paolo II si conoscevano molto bene prima della scomparsa del secondo. Si dice anzi che fossero molto amici e che esistesse fra di loro una assoluta sintonia di sentimenti ed ispirazioni. Ma nessuno è uguale ad un'altra persona ed anzi...spesso le discontinuità si manifestano maggiormente laddove meno ce lo si sarebbe potuto aspettare. Azzardando dunque un sintetico parallelismo fra i due più recenti Vicari di Nostro Signore Gesù Cristo vorrei esordire da una differenza assolutamente centrale e fondamentale che non sempre è adeguatamente valutata dagli osservatori. Benedetto XVI si rende conto della grave crisi che ha colpito la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II mentre Giovanni Paolo II sembra di no ovvero, seppure se ne sia reso conto, non ha mai manifestato esteriormente tale consapevolezza. Non si tratta di una diversità di poco conto. Tale conoscenza non significa di per sé la soluzione del problema ma ne rappresenta indubbiamente un presupposto ineliminabile. Il medico del resto, se vuole curare una malattia, deve necessariamente partire dalle cause che l'hanno determinata. Poi può anche, e purtroppo spesso accade, non riuscire a guarire il paziente ma senza la consapevolezza che esiste comunque una patologia, la speranza di successo è nulla. Un'altra rilevante divergenza fra le due personalità sta nel livello assai diverso di sensibilità liturgica. Papa Ratzinger non solo ama la Liturgia e la sua bellezza ma più volte ha indicato nella crisi della stessa il nocciolo più profondo che è stato contemporaneamente causa ed effetto del pauroso arretramento della Fede. Benedetto XVI appare inoltre, e non si consideri la mia affermazione irriguardosa verso Woytila, assai più ferrato in campo teologico, soprattutto sul versante dogmatico. Si può invece rilevare una piena ed assoluta sintonia nella forte difesa dei valori della morale. L'attuale Pontefice, in altre parole, pur essendo meno "carismatico" e "profetico" (ma ciò è forse un difetto?), non disdegna il confronto, anche serrato, sul piano razionale, con il mondo contemporaneo e la teologia "critica" di matrice mitteleuropea. Il suo linguaggio ed il suo pensiero rimangono ancora piuttosto lontani dal rigore logico del tomismo di impostazione aristotelica ma certo un notevole passo avanti è stato compiuto nella direzione di tornare a dare un significato univoco alle parole ed una semantica condivisa ai concetti ed alle proposizioni. Questa maggiore "congenialità" teologica e filosofica porta Benedetto XVI ad essere assai più prudente nei comportamenti e nelle affermazioni in occasione di appuntamenti "ecumenici". Difficilmente si lascerebbe trasportare in iniziative oggettivamente per lo meno "ambigue" come l'incontro di Assisi, i "mea culpa" del 2000, talune liturgie eccessivamente "inculturate" come quella con le danzatrici a seno scoperto in Papua-Nuova Guinea o talune espressioni incautamente "dialogiche" con l'Islam. Veniamo ora ad esporre alcuni punti di continuità fra i due Papi. Né l'uno, né l'altro in realtà possono essere considerati "uomini di governo". Woytila, sembra ormai assodato storicamente almeno per gli ultimi quindici anni di regno, lasciò la conduzione pratica della barca di Pietro in mano alla Curia Romana e, in particolare del Segretario di Stato. Anche Ratzinger credo non ami occuparsi di questioni di governo. La sua storia personale di accademico e Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ce lo mostrano in tutt'altre faccende affacendato che non a dirimere complotti fra porporati o lotte per la successione in una importante Arcidiocesi. Rendendosi però conto della situazione tragica in cui versa la nave si sforza il più possibile di correre ai ripari anche su questo versante. Ed in questo sforzo a lui poco congeniale sembra aver messo a punto una strategia "minimale" e prudente, come un generale che, sentendosi insicuro su un terreno infido e sconosciuto, avanza lentamente tenendosi le spalle coperte dai suoi ufficiali più vicini e veterani. Egli tende così a nominare in posti chiave della Curia sue vecchie conoscenze, non certo per nepotismo, ma perché di costoro conosce bene pregi e difetti e si sente comunque in grado di controllarne i movimenti. Così è avvenuto probabilmente con le nomine di Bertone, Levada e Canizares ma così non potrà andare avanti troppo a lungo visto che i suoi ex-collaboratori non sono infiniti. Né Ratzinger, né Woytila inoltre, ed in ciò appaiono in assoluta continuità rispetto a Giovanni XXIII e Paolo VI, credono o mostrano di credere all'importanza del principio di "autorità" nella Chiesa. Credono poco o nulla al principio di Autorità in generale, tanto meno a quella monocratica attribuita da Nostro Signore al suo Vicario in terra. Da qui l'esigenza di giocarsi tutto sul piano della "pastoralità" senza comprendere che il pastore in realtà è tale solo perché a lui è attribuita l'autorità sulle pecore. I risultati di questa deriva purtroppo si vedono da quarant'anni e i segnali di inversione di rotta appaiono ancora molto flebili. Come accennavo sopra, un altro punto in comune fra i due ultimi Pontefici è la fermezza mostrata in materia di morale. In verità la morale rappresenta l'unica branca della teologia che, almeno a livello di Magistero papale, non ha subito arretramenti nel post-Concilio. Qualche cedimento limitato lo possiamo ravvisare forse nell'accettazione della cremazione e degli espianti d'organo a cuore battente ma per il resto la dottrina è rimasta ben salda sul piano dell'insegnamento. Nulla a che vedere a confronto delle "rivoluzioni" ecclesiologiche, liturgiche, esegetiche ed ecumeniche! Di fatto però, con il venir meno del concetto di Autorità, anche i buoni insegnamenti spesso rimangono lettera morta. Cosa succede infatti se un fedele, un prete, un vescovo o un cardinale opera in netto contrasto con il Magistero? Assolutamente nulla. Mi fermo qui. Molto si potrebbe ovviamente ancora dire. Dalle mie considerazioni probabilmente la figura di Giovanni Paolo II ne esce un po' indebolita. Sappiamo che presto egli sarà proclamato beato ma non riesco proprio ad entusiasmarmi osservando i ventisette anni del suo Pontificato. Ciò ovviamente non incide minimamente sulle virtù eroiche che ci saranno sicuramente state e l'importante è che siano note a Dio.