Il Foglio
L’ultimo intellettuale a svoltare a favore di Papa Ratzinger è un big dell’opinione laicista: Gian Enrico Rusconi. Lunedì su La Stampa Rusconi non è entrato nel merito dei “sospetti di un uso improprio della Chiesa” da parte del card. Sepe quando dirigeva Propaganda fide, ma si è limitato a elogiare Benedetto XVI, il Papa “snobbato un po’ da tutti” il quale, “nonostante le parole di deferenza curiale che lo circondano, sta forse trovando il suo inatteso profilo”. Un profilo “impopolare perché segnala dimensioni di spiritualità che non sono consuete per una chiesa che ama proiettarsi verso ‘la rilevanza pubblica’ con la presunzione di possedere in esclusiva il monopolio della moralità. Una chiesa che ha ancora nostalgia del grande carisma comunicativo, senza rendersi conto dei costi che gli sono stati pagati”. La difesa che Rusconi fa del Papa è forte tanto quanto la critica che lo stesso mise in pagina soltanto due mesi fa. Era il 18 aprile. Rusconi in un’intervista parla del Papa e dei cortocircuiti mediatici provocati in questi cinque anni dalle sue scelte. Rusconi definisce Ratisbona “una provocazione” dove il Papa “dà una lettura scolastica dell’ellenizzazione e arriva a criticare Kant”. Dice: Papa Ratzinger è “un professore che si sopravvaluta”. E ancora: “Il fatto è che questo Papa è considerato nella vulgata un grande teologo, ma è sbagliato, è un professore di teologia dogmatica. E’ un ingenuo”. Il 12 marzo, quando dalla Germania e dagli Stati Uniti piovono critiche contro il Vaticano e il Papa per non aver denunciato in passato i preti pedofili, Rusconi si allinea alle richieste del teologo ribelle Hans Küng e spiega che ciò che manca alla chiesa “è una sorta di rivoluzione teologica in tema di sessualità, di cui non si vedono ancora i segni”. Raggiunto e superato lo scorso 19 aprile il traguardo dei cinque anni di pontificato, Papa Ratzinger si trova inaspettatamente circondato da nuovi amici. Si tratta di eminenti esponenti della cosiddetta “Chiesa critica”, intellettuali e big del cattolicesimo progressista ma anche dell’ateismo laico che fino a ieri erano tra i più acerrimi oppositori del suo pontificato. I puntelli assestati oggi da Benedetto XVI nella battaglia contro quei ministri di Dio che cedono alle tentazioni della carne come a quelle del potere, sta facendo salire uno dopo l’altro sul carro del Pontefice nomi che per tutto il periodo wojtyliano, ma ancora e con costanza lungo i primi cinque anni dell’era Ratzinger, hanno remato dall’altra parte. Di occasioni per accodarsi a Benedetto XVI ce ne sono state tante. Su tutte due: lo schiaffo assestato da Vienna dal card. Christoph Schönborn all’ex segretario di stato di Giovanni Paolo II, il card. Angelo Sodano, una denuncia grave della gestione passata dei casi di pedofilia nel clero. E, in queste ore, le accuse dalle quali è costretto a difendersi uno dei grandi uomini-macchina del papato di Giovanni Paolo II, il card. Crescenzio Sepe, amico della “famiglia pontificia” di Wojtyla, da don Stanislao Dziwisz a Wanda Poltawska: “Accetto la croce e perdono dal profondo del cuore quanti, dentro e fuori la chiesa, hanno voluto colpirmi” ha detto Sepe suggerendo che i suoi nemici risiedono anche dentro le sacre mura. I termini del vecchio conflitto sembrano essere saltati. Chi fino a ieri era fiero oppositore del Papa ora è pieno di encomio. “E’ un paradosso” dice il decano dei vaticanisti, Benny Lai: “I martiniani sono diventati ratzingeriani. Non solo, sembrano sostenere che tra Ratzinger e Martini non vi sia differenza”. Il richiamo di Joseph Ratzinger per un clero santo e liberato dai mali del carrierismo, dell’ambizione personale, della corruzione dei costumi fino agli abusi sui minori, è la porta stretta entro la quale un certo cattolicesimo progressista e liberal ha deciso di passare facendo di Von Schönborn, “uno fra i pastori più lucidi nell’affrontare i crimini di pedofilia” ha detto Alberto Melloni, un proprio alleato, e di Sepe e di tutto ciò che egli rappresenta un nemico. E’ Giancarlo Zizola, uno dei vaticanisti più schierati con le spinte liberal presenti nella chiesa, a rompere gli indugi e a dire esplicitamente su La Repubblica che la linea di Schönborn è la stessa di Papa Ratzinger. Dice: “Il cardinale di Vienna mette in gioco la sua vicinanza teologica e umana con Papa Ratzinger, fin da quando lavoravano fianco a fianco sul catechismo della chiesa cattolica. E dà voce a quella corrente di pensiero nella Chiesa che interpreta l’attuale crisi come strumento necessario di liberazione del male oscuro, a lungo rimosso, passaggio doloroso ma necessario per recuperare la prospettiva della riforma ecclesiale. Egli si schiera con quanti sono convinti che subire questa crisi aspettando che la nuvola nera passi e tornare anzi all’idea di una Chiesa ‘società perfetta’ sia una strategia perdente”. Zizola, che soltanto un anno fa aveva pestato impietosamente sulla revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, loda Joseph Ratzinger e la sua “azione purificatrice”, che “ha smantellato il sistema organizzato dell’omertà”. Per Zizola la volontà di Papa Ratzinger di avviare “il radicale risanamento istituzionale e interiore del sistema ecclesiastico” è “la stessa convinzione che ha portato il cardinale Carlo Maria Martini a salutare con favore il fatto che la società esiga che venga fatta piena luce su questi fatti delittuosi e che le vittime abbiano avuto il coraggio ‘di denunciare tali crimini secondo verità’”. Insomma, tra Ratzinger e Martini, tra il Papa e colui che a più riprese propose un Vaticano III dove adeguare la Chiesa al secolo, la dottrina cattolica ai segni del mondo, la sintonia sarebbe oggi totale. “In realtà”, dice Sandro Magister, “l’infatuazione che certi intellettuali e giornalisti hanno oggi per Ratzinger è l’assolutizzazione di un solo aspetto. Il Papa richiama al pentimento il clero e non cita nemici esterni alla Chiesa. Non dà colpe esterne e questa sua posizione viene letta da alcuni come la volontà di appiattirsi su un cattolicesimo di retrovia. Ma Ratzinger non è soltanto ‘pentimento’”. Prima di Rusconi e Zizola, tra i nuovi amici del Papa troviamo Alberto Melloni. Il rapporto tra Melloni, lo storico progressista della “scuola bolognese” fondata da Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo, e Papa Ratzinger, è altalenante. Inizialmente Melloni subisce un qualche strano fascino del nuovo Pontefice, agli antipodi della scuola di Bologna con il suo Magistero. In “L’inizio di Papa Ratzinger” Melloni dichiara di credere “nella svolta”. Si domanda: dopo le fasi “mediatiche” e “aristocratiche” del pontificato di Wojtyla, potrebbe Benedetto XVI aprire un nuovo capitolo? Forse sì. Melloni rileva qualche segnale: “Tutti i tratti del ‘wojtylismo pubblico’ sono stati abbandonati senza inutili esplicitazioni polemiche”. E ancora: “I viaggi sono cambiati. La visibilità televisiva è sfumata”. Anche perché “il credito intellettuale dell’uomo è tale da consentirgli le mosse più attese: fare le riforme dell’istituzione ecclesiastica centrale, soprattutto in senso sinodale, che un candidato della politica italiana avrebbe senz’altro trascurato e che un candidato d’apertura non avrebbe forse osato imporre”. E’ qui il centro della speranza di Melloni: una svolta nella conduzione del governo in chiave sinodale da parte di un Papa non italiano e non progressista, e che per queste due caratteristiche può fare quel che altri, variamente condizionati, non potrebbero forse fare. La svolta della collegialità.
Nei mesi successivi Benedetto XVI sembra non rispondere adeguatamente alle aspettative di Melloni. Il 22 dicembre del 2005 il discorso rivolto dal Papa alla Curia romana segna una frattura che pare insanabile con l’“officina bolognese”. Papa Ratzinger, nel discorso che anche uno dei massimi esponenti delle scuola bolognese, lo storico del cristianesimo Joseph A. Komonchak, curatore dell’edizione americana dei cinque volumi della “Storia del Concilio Vaticano II” prodotta da Dossetti e Alberigo, riconosce come “il più importante intervento del Papa”, prende le distanze dall’ermeneutica della discontinuità del Concilio portata avanti a Bologna dai cattolici progressisti. Papa Ratzinger è chiaro: non esiste una Chiesa del pre Concilio e una al Concilio successiva. Non c’è frattura tra i due momenti: la Chiesa è la stessa e il rinnovamento nella Chiesa non può che avvenire in continuità col passato. Inizialmente Alberigo e Melloni non reagiscono, anche se successivamente, è il marzo del 2007, si fanno sentire. Nonostante il Papa chieda con insistenza alla politica di non tradire i “princìpi non negoziabili” in merito alla vita e alla famiglia, firmano un appello dicendo che la Conferenza Episcopale italiana guidata da poche settimane dal card. Angelo Bagnasco deve tacere sulla legalizzazione delle coppie di fatto, etero e omosessuali, e deve risparmiare “tanta sciagura che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia”. La distanza tra le due parti è enorme. Lo scontro campale è anche sul “ruinismo”, su una Chiesa che si permette di imporre al secolo la sua norma morale attraverso una attiva mobilitazione nello spazio pubblico. E si acuisce ulteriormente quando il Papa senza preavviso, e secondo alcuni senza spirito collegiale, firma il Motu Proprio "Summorum Pontificum" col quale liberalizza il rito pre conciliare e, poco dopo, firma la revoca della scomunica ai vescovi scismatici lefebrviani. Melloni scrive nel luglio del 2007 sul Corriere della Sera che il Motu Proprio è “uno sberleffo villano al Vaticano II, un inutile strumento negoziale coi lefebvriani, un gesto polemico contro Paolo VI, un eccesso di generosità d’un Papa nella cui famiglia si celebra dando le spalle all’assemblea”. Definitivo il giudizio che in quei giorni Melloni dà del pontificato di Benedetto XVI: “Il pontificato delle decisioni e delle contro decisioni: si critica Assisi e poi si va ad Assisi; si va a Ratisbona e poi si ripara in Turchia”. E adesso? Oggi Melloni sta apparentemente col Papa. E anche con il card. Angelo Bagnasco al quale nel 2007 aveva chiesto di tacere. Bagnasco chiude a fine maggio l’assemblea dei vescovi italiani dicendo che la Chiesa italiana è con le vittime degli abusi del clero e che i vescovi devono agire di conseguenza. Melloni scrive un pezzo intitolato “Elogio del vescovo che sta con le vittime”. E paragona la Conferenza Episcopale italiana a “quella belga dei tempi del cardinale Daneels” e a “quella americana ai tempi di monsignor Bernardin” perché, scrive, “si sente perfino da fuori che la comunione tra i vescovi è lo strumento più importante che la Cchiesa ha per collocare ogni cosa al posto giusto, senza attenuazione e senza semplici moralismi”. Melloni non cita direttamente la gestione precedente a Bagnasco. Non cita il card. Camillo Ruini. Ma dietro queste sue parole per molti l’obiettivo sembra essere uno, la CEI precedente a Bagnasco, in generale la politica adottata dalla Chiesa nel pontificato di Giovanni Paolo II: le parole di Bagnasco rovesciano “un linguaggio ingannevole nel quale la cultura cattolica si è spesso cullata, quello secondo cui la Chiesa stava al balcone della verità, mentre la società sguazzava nel fangoso cortile sottostante del saeculum”. Le rose tra Melloni e Joseph Ratzinger sono fiorite di nuovo grazie alla presa di distanza sempre più netta del Vaticano rispetto agli errori del passato: le coperture sui pedofili, gli affari forse non fino in fondo leciti di alcuni principi dell’era wojtyliana. Melloni sulle colonne del Corriere della Sera non solo elogia la pazienza del Papa ma riprende anche il filo di quanto aveva cominciato a dire nel 2005, appena il Papa fu eletto. La Chiesa può svoltare, può riformarsi. Scrive: “Quella idea di un Concilio, così dimenticata da far sembrare novità il canto tardivo di qualche galletto del Vaticano III, corrisponde alla cosa più tradizionale della storia dei concili di tutte le chiese e di tutti i tempi: e cioè prendere il male (di solito i vescovi) e farli diventare la cura non grazie a qualche magia, ma per la forza dello Spirito. Ma di quell’idea l’alba può tardare secoli o anni, senza differenze apprezzabili. Di qui a là, l’istituzione, che era il vanto della Chiesa di Roma tra le sue chiese sorelle, resta nel disdoro”. C’è chi osserva: i nuovi amici del Papa sono i nemici di quello morto, “papolatrico” e “crociato anticomunista” e fissato con il vangelo della vita; poi fattisi suoi estimatori contro i discorsi di Ratisbona, di Verona alla Chiesa italiana e quello alla Curia romana di un “deludente” Ratzinger; e ora ferventi ratzingeriani dell’ultima ora in un clima di dissacrazione di un’era curiale non proprio fertile per la seminagione di santità di Wojtyla che il popolo aveva incominciato al grido di “santo subito”.
Nei mesi successivi Benedetto XVI sembra non rispondere adeguatamente alle aspettative di Melloni. Il 22 dicembre del 2005 il discorso rivolto dal Papa alla Curia romana segna una frattura che pare insanabile con l’“officina bolognese”. Papa Ratzinger, nel discorso che anche uno dei massimi esponenti delle scuola bolognese, lo storico del cristianesimo Joseph A. Komonchak, curatore dell’edizione americana dei cinque volumi della “Storia del Concilio Vaticano II” prodotta da Dossetti e Alberigo, riconosce come “il più importante intervento del Papa”, prende le distanze dall’ermeneutica della discontinuità del Concilio portata avanti a Bologna dai cattolici progressisti. Papa Ratzinger è chiaro: non esiste una Chiesa del pre Concilio e una al Concilio successiva. Non c’è frattura tra i due momenti: la Chiesa è la stessa e il rinnovamento nella Chiesa non può che avvenire in continuità col passato. Inizialmente Alberigo e Melloni non reagiscono, anche se successivamente, è il marzo del 2007, si fanno sentire. Nonostante il Papa chieda con insistenza alla politica di non tradire i “princìpi non negoziabili” in merito alla vita e alla famiglia, firmano un appello dicendo che la Conferenza Episcopale italiana guidata da poche settimane dal card. Angelo Bagnasco deve tacere sulla legalizzazione delle coppie di fatto, etero e omosessuali, e deve risparmiare “tanta sciagura che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia”. La distanza tra le due parti è enorme. Lo scontro campale è anche sul “ruinismo”, su una Chiesa che si permette di imporre al secolo la sua norma morale attraverso una attiva mobilitazione nello spazio pubblico. E si acuisce ulteriormente quando il Papa senza preavviso, e secondo alcuni senza spirito collegiale, firma il Motu Proprio "Summorum Pontificum" col quale liberalizza il rito pre conciliare e, poco dopo, firma la revoca della scomunica ai vescovi scismatici lefebrviani. Melloni scrive nel luglio del 2007 sul Corriere della Sera che il Motu Proprio è “uno sberleffo villano al Vaticano II, un inutile strumento negoziale coi lefebvriani, un gesto polemico contro Paolo VI, un eccesso di generosità d’un Papa nella cui famiglia si celebra dando le spalle all’assemblea”. Definitivo il giudizio che in quei giorni Melloni dà del pontificato di Benedetto XVI: “Il pontificato delle decisioni e delle contro decisioni: si critica Assisi e poi si va ad Assisi; si va a Ratisbona e poi si ripara in Turchia”. E adesso? Oggi Melloni sta apparentemente col Papa. E anche con il card. Angelo Bagnasco al quale nel 2007 aveva chiesto di tacere. Bagnasco chiude a fine maggio l’assemblea dei vescovi italiani dicendo che la Chiesa italiana è con le vittime degli abusi del clero e che i vescovi devono agire di conseguenza. Melloni scrive un pezzo intitolato “Elogio del vescovo che sta con le vittime”. E paragona la Conferenza Episcopale italiana a “quella belga dei tempi del cardinale Daneels” e a “quella americana ai tempi di monsignor Bernardin” perché, scrive, “si sente perfino da fuori che la comunione tra i vescovi è lo strumento più importante che la Cchiesa ha per collocare ogni cosa al posto giusto, senza attenuazione e senza semplici moralismi”. Melloni non cita direttamente la gestione precedente a Bagnasco. Non cita il card. Camillo Ruini. Ma dietro queste sue parole per molti l’obiettivo sembra essere uno, la CEI precedente a Bagnasco, in generale la politica adottata dalla Chiesa nel pontificato di Giovanni Paolo II: le parole di Bagnasco rovesciano “un linguaggio ingannevole nel quale la cultura cattolica si è spesso cullata, quello secondo cui la Chiesa stava al balcone della verità, mentre la società sguazzava nel fangoso cortile sottostante del saeculum”. Le rose tra Melloni e Joseph Ratzinger sono fiorite di nuovo grazie alla presa di distanza sempre più netta del Vaticano rispetto agli errori del passato: le coperture sui pedofili, gli affari forse non fino in fondo leciti di alcuni principi dell’era wojtyliana. Melloni sulle colonne del Corriere della Sera non solo elogia la pazienza del Papa ma riprende anche il filo di quanto aveva cominciato a dire nel 2005, appena il Papa fu eletto. La Chiesa può svoltare, può riformarsi. Scrive: “Quella idea di un Concilio, così dimenticata da far sembrare novità il canto tardivo di qualche galletto del Vaticano III, corrisponde alla cosa più tradizionale della storia dei concili di tutte le chiese e di tutti i tempi: e cioè prendere il male (di solito i vescovi) e farli diventare la cura non grazie a qualche magia, ma per la forza dello Spirito. Ma di quell’idea l’alba può tardare secoli o anni, senza differenze apprezzabili. Di qui a là, l’istituzione, che era il vanto della Chiesa di Roma tra le sue chiese sorelle, resta nel disdoro”. C’è chi osserva: i nuovi amici del Papa sono i nemici di quello morto, “papolatrico” e “crociato anticomunista” e fissato con il vangelo della vita; poi fattisi suoi estimatori contro i discorsi di Ratisbona, di Verona alla Chiesa italiana e quello alla Curia romana di un “deludente” Ratzinger; e ora ferventi ratzingeriani dell’ultima ora in un clima di dissacrazione di un’era curiale non proprio fertile per la seminagione di santità di Wojtyla che il popolo aveva incominciato al grido di “santo subito”.