di Paolo Rodari
Il Foglio
Dopo il trionfalismo carismatico di Karol Wojtyla, il pudore monastico di Joseph Ratzinger. Due stili diversi che rispecchiano due caratteri dissimili. Due stili che portano a un unico risultato: l’entusiasmo delle folle.
Di Giovanni Paolo II i fedeli applaudivano il gesto, la frase a effetto, gli slanci teatrali, a volte trascurandone quasi del tutto l’argomentare. Di Benedetto XVI seguono le omelie, tendono le orecchie durante i discorsi, ascoltano ogni parola con un’attenzione che sbalordisce esperti e analisti. Così è accaduto in Inghilterra e Scozia, durante il recente viaggio: “Ratzinger si è imposto come uomo mite, umile, che parla in modo gentile”, ha detto il vaticanista del Times Richard Owen. “Riflessioni profonde, proposte a voce bassa”.
Più che altrove, lo stile di Benedetto XVI ha trovato un suo compimento nel Regno Unito: difficile immaginare, prima della partenza per quello che in molti avevano definito il “viaggio più difficile”, centomila persone a Hyde Park, cuore della City, in totale silenzio per un’ora e mezza ad ascoltare una sacra liturgia.
Quale il segreto di Joseph Ratzinger? Quale la strategia comunicativa? Una sola: non avere strategie. L’ha spiegato lo stesso Pontefice sul volo che lo portava dieci giorni fa verso Edinburgo. Gli ha chiesto padre Federico Lombardi, portavoce vaticano: cosa possono fare i cattolici per rendere la Chiesa più attrattiva? Ha risposto il Papa: “Una Chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata, perché la Chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro: serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità e le grandi forze di amore, di riconciliazione che vengono sempre dalla presenza di Gesù Cristo”.
Ecco il segreto di Joseph Ratzinger, per molti “Panzer cardinal”, per altri addirittura “Rotweiler di Dio” divenuto Papa: non volere attrarre nessuno. Piuttosto fare un passo indietro e mettere al centro della scena un Altro. E’ questo uno stile tutto suo e che, a dispetto delle mille e più strategie comunicative che spesso diversi organi ecclesiastici, dalla Curia romana alle varie Conferenze Episcopali fino alle singole diocesi, cercano di adottare, s’impone con autorevolezza dirompente.
Lo stile del Papa è sobrio, soprattutto a contatto con le masse. Ogni appuntamento pubblico sembra per lui liturgia. E, infatti, fuori delle Messe, delle catechesi, delle benedizioni, Benedetto XVI è un minimalista. “Il Papa non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la chiesa all’obbedienza alla parola di Dio”, disse quando prese possesso della Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano, il 7 maggio 2005. Un criterio che per Papa Ratzinger è un programma di governo: di suo fa pochissimo, al centro della scena non c’è mai lui, ma l’essenziale, ovvero Gesù Cristo vivo e presente nei sacramenti della Cchiesa.
I primi mesi di Pontificato di Benedetto XVI lasciarono senza parole gli analisti di cose vaticane. La folla presente alle Udienze del mercoledì e in Piazza San Pietro agli Angelus della domenica, era esattamente raddoppiata rispetto agli ultimi mesi di Giovanni Paolo II. Dati certi vennero resi noti dalla Prefettura della Casa Pontificia, l’organismo vaticano che governa le udienze. Nei mesi tra maggio e settembre, nel 2004, andarono alle Udienze di Giovanni Paolo II in 194 mila. Negli stessi mesi, nel 2005, a quelle di Benedetto XVI andarono in 410 mila. Così anche per gli Angelus: 262 mila presenze in cinque mesi con Papa Wojtyla, 600 mila negli stessi mesi del 2005 con Papa Ratzinger.
Benedetto XVI non compie gesti a effetto, non martella frasi roboanti, non incoraggia applausi e osanna. Si sottrae alle feste di massa. Ama arrivare agli appuntamenti pubblici solo per celebrare e predicare. Anche i viaggi hanno programmi strettissimi, quasi volesse fuggire dal superfluo, da ciò che va oltre lo stretto necessario.
Roma, Piazza San Pietro, 16 ottobre 2005. Benedetto XVI incontra i bambini della prima comunione. L’appuntamento ha un programma singolare: prima il Papa risponde a braccio ad alcune domande, poi, sempre coi bambini, fa mezz’ora di adorazione eucaristica. C’è chi sostiene in Vaticano: “Un azzardo dopo anni di appuntamenti più somiglianti a festival musicali che ad altro”. Il Papa arriva in piazza puntuale. Esce in papamobile dall’Arco delle Campane. I bambini applaudono e urlano slogan. Il Papa saluta. Poi scende dall’auto e inizia a parlare. A poco a poco cala il silenzio. Il Papa insegna loro teologia. Un bambino gli domanda: “La mia catechista mi ha detto che Gesù è presente nell’Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!”. Risposta. “Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione. Tuttavia abbiamo la ragione”. Poi il silenzio si fa totale. Il Papa s’inginocchia innanzi all’Eucaristia. Tutti guardano oltre il Papa, verso dove lui guarda. In meno di un’ora l’attenzione di una folla sui generis, centomila bambini, è completamente catturata. Una scena, quest’ultima, rivista nell’agosto del 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia: il Papa che di colpo s’inginocchia innanzi all’Eucaristia. I ragazzi che si zittiscono e s’inginocchiano. Intorno un silenzio surreale che mette a disagio soltanto i cronisti delle varie tv e radio collegate. Per circa un’ora non sanno più che dire.
Passano venti mesi dall’elezione di Joseph Ratzinger al soglio di Pietro. Benedetto XVI diviene un caso di studio mondiale. La White Star, una casa editrice collegata alla National Geographic Society, pubblica “Benedetto XVI, l’alba di un nuovo papato”. Gli autori sono un grande fotografo italiano, Gianni Giansanti, e l’ex caporedattore della sede romana di Time, Jeff Israely. Il libro nasce con un motivo esplicito: studiare il “caso Ratzinger”, il motivo del successo del ‘Panzer cardinal’ divenuto successore di san Pietro. Scrive Israely: “I gesti del suo predecessore hanno impressionato il mondo. Benedetto XVI fa invece notizia con la forza della sua prosa. Ma le sue parole non rappresentano un puro esercizio intellettuale: sono una manifestazione della sua fede e umanità. Nel messaggero si rende visibile il messaggio”. Scrive pochi giorni dopo il vaticanista Sandro Magister su L’Espresso: “Giovanni Paolo II dominava la scena. Benedetto XVI offre alle folle la sua nuda parola. Ma cura di spostare l’attenzione a qualcosa che è al di là di se stesso”.
Forse è soltanto un caso. Ma è da notare il fatto che sui giornali britannici i giorni successivi la partenza del Papa da Londra domenica scorsa due parole erano presenti più di altre: successo e nostalgia. Successo del Papa sulla folla: duecentomila persone che lo rincorrono lungo le strade di Londra mentre si avvicina a Hyde Park per la Veglia per la Beatificazione del card. John Henry Newman non è cosa da poco. Nostalgia per la sua partenza. Anna Arco, vaticanista britannica, collaboratrice di numerose pubblicazioni specializzate e redattrice del londinese Catholic Herlad ha confessato di soffrire di “ppd”, e cioè di “post papal depression”. Forse, nella gigantesca mole di articoli scritti in queste ore per fare un bilancio dei quattro giorni di Benedetto XVI nel Regno Unito, non c’è battuta migliore per dare una misura, seppur immediata, di quanto sia la dimensione del successo pastorale, ecclesiale, spirituale e umano della visita del Papa. Un successo di folla che ha stupito lo stesso Benedetto XVI che ha dichiarato mercoledì scorso durante l’Udienza generale: la visita è stata “un evento storico”. Ha scritto Antonio Socci su Libero: “Ratzinger non è tipo che usa le parole a vanvera. Ha spiegato che è stato un evento storico anzitutto perché ha rovesciato tutte le previsioni”. L’ha scritto anche Damian Thompson sul Telegraph: i britannici hanno visto “le cose come sono”. Hanno “visto” il Papa. L’hanno “sentito parlare” e si sono fatti conquistare.
C’è un enigma che riguarda le folle di Benedetto XVI durante i suoi viaggi fuori i confini italiani. In questo enigma la folla inglese è la protagonista ultima in ordine di tempo. Ultima a fare che? A convertirsi al Papa. Dato in partenza sempre sconfitto, Benedetto XVI guadagna punti appena atterra sul suolo straniero. Guadagna sul popolo. Sulla gente che, a sentire i più, dovrebbe essergli ostile. E tutto ciò è un enigma. Un mistero che puntualmente si ripresenta. I suoi quattordici viaggi all’estero hanno sempre capovolto le fosche previsioni di ogni vigilia. È avvenuto così anche nei luoghi più ostici. In Turchia nel 2006, negli Stati Uniti e in Francia nel 2008, in Israele e Giordania l’anno dopo. Ovunque colpisce la sua audacia. A Ratisbona, nel 2006, svelò dove affonda la radice ultima della violenza religiosa, in un’idea di Dio sganciata dalla razionalità. Scoppiarono polemiche. Venti di fanatismo e proteste in tutto il mondo. Papa Ratzinger sembrava sconfitto. Ma fu grazie a quella lezione che oggi tra i musulmani sono più forti le voci che invocano una rivoluzione illuminista anche nell’islam, la stessa che c’è già stata nel cattolicesimo degli ultimi secoli. Fu grazie a quella lectio magistralis se oggi qualcuno, anche la dove l’islam è più fanatico, accetta un confronto coi cattolici.
Benedetto XVI inizialmente ferisce. Colpisce il cuore della società odierna, il suo pensiero. Ferendo, stana ciò che egli ritiene falso. Per questo, le sue parole, nel tempo restano. Non passano. Fu la scorsa primavera che durante un’Udienza del mercoledì paragonò l’ora presente della Chiesa a quella dopo San Francesco. Anche allora c’erano nella cristianità correnti che invocavano una “età dello Spirito”, una nuova Chiesa senza più gerarchia, né precetti, né dogmi. Oggi qualcosa di simile avviene quando si invoca un Concilio Vaticano III che sia “nuovo inizio e rottura”. Un nuovo inizio verso dove? Le mete, in fin dei conti, non sono altro che proclami che già hanno fatto scuola, con risultati mediocri e pochi nuovi adepti conquistati alla causa, nelle comunità protestanti: l’abolizione del celibato del clero, il sacerdozio per le donne, la liberalizzazione della morale sessuale, un governo della Chiesa senza il primato petrino. A tutto questo Papa Ratzinger oppone una nuova modalità di governo della chiesa, il suo pensiero “illuminato dalla preghiera”. Joseph Ratzinger parla della fede. Di Dio. Di Gesù Cristo. Della Chiesa nel mondo, nella società, nel discorso pubblico. Della fede dentro il vivere di tutti i giorni, con le sue rilevanze private ma anche pubbliche. Non cerca il consenso della gente. Non si piega alle mode del mondo. Accetta la sfida di portare nel mondo la spada che è il Vangelo. E per questo, alla lunga, vince. Ciò che dice resta.
C’è chi reagisce male alle sue parole, come tante e tante bufere mediatiche in questo pontificato dimostrano. C’è chi si ribella e vuole arrestare il Papa per “crimini contro l’umanità”. Ma c’è anche chi si lascia ferire dal suo dire e inizia a seguirlo. Ci sono intellettuali che vorrebbero non parlasse più. Ci sono intellettuali che addirittura non lo fanno parlare, come il “caso Sapienza” dimostra. Ma ce ne sono altri, e le platee dell’Università di Ratisbona, del Collegio dei Bernardini a Parigi e del Parlamento di Westminster a Londra lo dimostrano, che dopo lo scetticismo iniziale non possono fare altro che alzarsi in piedi e applaudirlo. E’ quest’ultimo il pubblico più sofisticato di Benedetto XVI. Un pubblico tutto suo. Diverso dalle grandi folle. Spesso si tratta di circoli ristretti. Tutti plaudenti innanzi al teologo divenuto Papa. “Da Rottweiler di Dio a Pontefice più amato, il migliore”, scrisse sul New York Times qualche mese fa, in piena tempesta mediatica per il problema dei preti pedofili, il trentenne conservatore Ross Douthat, opinionista tra i più puntuti degli Usa. Un’opinione, questa, trasversale, e presente soprattutto nel mondo degli intellettuali di lingua anglosassone. Un’opinione positiva fattasi più forte proprio nei giorni peggiori del pontificato di Benedetto XVI, appunto i mesi scorsi del grande attacco per la questione pedofilia. Hendrik Hertzberg sul New Yorker, dopo aver ricordato Martin Lutero e l’attuale crisi di potere e di cultura della Chiesa, spese parole di elogio per Benedetto XVI. Proprio in quei giorni, si diffuse un appello con settanta firme del mondo francofono. Firmarono intellettuali, filosofi, giornalisti, drammaturghi, docenti universitari, artisti e personalità varie. Tra i firmatari vi furono Jean-Luc Marion, dell’Académie Française, professore a Parigi e a Chicago. Quindi Remi Brague, professore di filosofia e membro dell’Institut. Lo scrittore Françoise Taillandier. La filosofa Chantal Del sol. L’attore Michael Lonsdale. Il matematico Laurent Lafforgue. E tanti altri.
Ratzinger parla ai più umili e agli intellettuali, dunque. E a tutti dice qualcosa. Non ha strategie comunicative. Sembra preoccupato soltanto della verità, del contenuto del suo dire.
Un paio di anni fa è uscito “Ratzinger professore” di Gianni Valente, un libro contenente gli anni dello studio e dell’insegnamento di Ratzinger nel ricordo degli allievi e dei colleghi, anni che vanno dal 1946 al 1977. Ratzinger, si racconta, fu fin dall’inizio capace di catturare l’attenzione dei suoi studenti. Come? Introdusse un modo nuovo di fare lezione. Racconta un suo ex alunno: “Leggeva le lezioni in cucina a sua sorella Maria, persona intelligente ma che non aveva mai studiato teologia. Se la sorella manifestava il suo gradimento, questo era per lui il segno che la lezione andava bene”. Uno studente di quei tempi dice: “La sala delle sue lezioni era sempre stracolma, gli studenti lo adoravano. Aveva un linguaggio bello e semplice. Il linguaggio di un credente”.
Il professor Ratzinger non faceva sfoggio di erudizione accademica né usava un tono oratorio abituale a quei tempi. Esponeva le lezioni in modo piano, con un linguaggio di limpida semplicità anche nelle questioni più complesse. Molti anni dopo, lo stesso Joseph Ratzinger spiegò il segreto del successo delle sue lezioni: “Non ho mai cercato di creare un mio sistema, una mia particolare teologia. Se proprio si vuol parlare di specificità, si tratta semplicemente del fatto che mi propongo di pensare insieme con la Chiesa e ciò significa soprattutto con i grandi pensatori della fede”. Gli studenti percepivano, attraverso le sue lezioni, non solo di ricevere nozioni di scienza accademica, ma di entrare in contatto con qualcosa di grande, con il cuore della fede cristiana. Questo il segreto del giovane professore di teologia, che attirava gli studenti. Questo è forse l’unico suo segreto ancora oggi: non mettere se stesso al centro della scena, ma qualcosa di grande oltre lui, il cuore della fede cristiana. E poi, il segreto più importante: l’assenza di una strategia comunicativa. Papa Ratzinger non cerca il consenso.