martedì 6 dicembre 2011

E alla fine il mondo vuole ascoltare il Papa. Nel dialogo della Chiesa con le altre religioni non un cambio di traiettoria ma un affinamento di metodo

Uno degli impegni della Chiesa Cattolica dopo il Concilio Vaticano II è quello dell’apertura al dialogo con le altre religioni. Ed è forse una delle strada più difficili e accidentate che siano mai state percorse, ma anche la più entusiasmante. Dopo i grandi incontri che Giovanni Paolo II ha avuto nel suo pontificato, dopo i gesti, le visite a moschee, sinagoghe e templi, oggi è l’ora di una riflessione sui contenuti che trovi punti di contatto reali, concreti e non solo formali. Eccoci allora all’era di Benedetto XVI che fa il passo successivo sulla strada indicata dal Concilio. Non un cambio di traiettoria quindi, come qualcuno teme. Piuttosto un affinamento di metodo. In questa prospettiva sono interessantissimi i prossimi incontri che il Papa e alcuni cardinali avranno con rappresentanti di altre religioni, e il ruolo internazionale che, anche qui nonostante tutto e molti, cresce. Cominciamo proprio da questo. Da lunedì 5 dicembre la Santa Sede è diventato Stato membro dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. E i migranti sono il primo banco di prova del dialogo tra le fedi. La richiesta è stata accolta dagli altri Stati e risponde a chi denuncia una scarsa attenzione di questo pontificato al problema dei migranti e dei rifugiati. Il lavoro vero si fa spesso in silenzio. Ma ora la Santa Sede, che normalmente è Osservatore permanente nelle istituzioni internazionali, e non ha diritto al voto, potrà invece avere voce in capitolo. E di situazioni difficili come le migrazione la Chiesa si occupa da sempre. Si può dire che è fondata sulla storia di una famiglia di rifugiati: Maria, Giuseppe e Gesù. La forza della Chiesa, della Santa Sede nei consessi internazionali è la difesa della dignità della persona umana. Gli altri, gli stati moderni, lo hanno capito, e anche quando sono in contrasto per motivi politici o economici, per pressioni di lobbies e centri di potere, alla fine guardano alla santa Sede come unica istanza che “ha qualcosa da dire”. Ecco, la Chiesa ha ancora da dire qualcosa all’uomo e lo può fare insieme alle altri fedi, agli uomini di buona volontà di ogni religione. Così lunedì 12 dicembre quando il Rabbino Capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth, Lord Jonathan Sacks, sarà ricevuto da Benedetto XVI in Vaticano, sarà un nuovo passo sulla strada indicata dal Concilio. Non solo perché il Papa riceve un Rabbino, ma soprattutto perché la loro visione del momento presente coincide in modo emozionante. L’Europa ha perso la sua anima? Sarà questo il tema di cui parleranno i due studiosi? Sul destino dell’Europa le loro posizioni sembrano simili. E quella del Rabbino più stimato d’Inghilterra che è stato invitato anche ai matrimoni dei reali, la possiamo conoscere anche lunedì 12 nel pomeriggio in una conferenza alla Pontificia Università Gregoriana. Recuperare giustizia e compassione, proporre un’etica ebraico-cristiana, sembra la strada giusta per recuperare il futuro. E dove non può essere fisicamente Benedetto è presente con la parola. Come quel suo messaggio che il card. Raffaele Martino, per anni rappresentante della Santa Sede all’Onu, porterà in Myanmar questa settimana. Destinataria il premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi. L’occasione è la cerimonia per il 100ç anniversario della Cattedrale di Yangon. Suu Kyi, di fede buddista, ci sarà ed ascolterà le parole di Benedetto XVI. Ancora un riconoscimento di quanto siano importanti nel mondo i valori che la Chiesa diffonde.

Angela Ambrogetti, Korazym.org