Il Concilio secondo Kasper. Con il Vaticano II, di cui si festeggia il 50° anniversario, "la Chiesa si rimise in cammino", evidenzia il card. Walter Kasper (nella foto con Benedetto XVI), ma "occorre entrare nel concetto di rinnovamento per una corretta interpretazione del Concilio". No, quindi, al "mito" del Concilio, la Chiesa è attesa da un futuro da "minoranza creativa" quindi ha bisogno di una nuova primavera spirituale. Il 26 gennaio a Roma, al "Centro Pro Unione" è stato presentato il libro "Chiesa Cattolica: essenza-realtà-missione" scritto dal presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Il cardinale tedesco vede il futuro della Chiesa non nel mantenimento delle strutture della "Chiesa di popolo" ormai anacronistiche, ma condivide il parere del grande storico Arnold J.Toynbee, secondo il quale, nelle situazioni particolarmente difficili della storia dell’umanità, ad aver individuato una via d’uscita sono sempre state minoranze qualificate e creative a cui si è poi potuta unire anche la maggioranza. Ministro dell’ecumenismo ai tempi di Giovanni Paolo II e ancora, per qualche anno, con Benedetto XVI, solitamente avvezzo a suonare sui grandi temi della riforma della Chiesa un canto in parte differente da quello istituzionale della Curia romana, Kasper è uno dei cardinali di maggior peso della Curia romana. Nell’analisi che il porporato tedesco fa della crisi della Chiesa, la figura di Chiesa pienamente radicata nel popolo, che ha avuto il suo grande peso nella storia ed ha apportato il suo grande contributo, volge ormai al termine di fronte alla situazione pluralista di oggi e non può essere una figura della Chiesa orientata al futuro nel terzo millennio. "L’esperienza del Concilio Vaticano II divenne per me un’esperienza quanto mai incisiva della Chiesa e un permanente saldo punto di riferimento - rievoca Kasper -. Quando il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò il Concilio, la sorpresa fu enorme. Seguì un tempo mozzafiato, avvincente e interessante quale i giovani teologi odierni non riescono più a immaginare. Noi sperimentammo come la veneranda vecchia Chiesa mostrava una nuova vitalità, come spalancava porte e finestre ed entrava in un dialogo al suo interno nonché in dialogo con altre Chiese, altre religioni e con la cultura moderna". Era una Chiesa che si rimetteva in cammino, una Chiesa che non ripudiava e non rinnegava la sua antica tradizione, ma le rimaneva fedele, e che tuttavia raschiava via incrostazioni e cercava così di rendere la tradizione nuova, viva e feconda per il cammino verso il futuro. Sulla lettura del Concilio, Kasper è stato interprete negli anni del duo Wojtyla-Ratzinger di un contro-canto intelligente e puntuto all’interno della Curia romana. "Sono sempre convinto che i sedici principali documenti del concilio sono, nel loro complesso, la bussola per il cammino della Chiesa nel XXI secolo - sottolinea Kasper -. Il Concilio Vaticano II è già stato spesso definito come il Concilio della Chiesa sopra la Chiesa. La Chiesa, che era in cammino sulle strade della storia da duemila anni, prese nel corso di tale Concilio più profondamente coscienza della propria essenza, in virtù della quale era già fino ad allora vissuta e aveva agito". Già nel discorso di apertura, tenuto l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII disse che compito del Concilio sarebbe stato quello di conservare integralmente e senza falsificazioni il sacro patrimonio della dottrina cristiana e di insegnarlo in modo efficace. Paolo VI disse la stessa cosa il 21 novembre 1964, in occasione della solenne promulgazione della Costituzione sulla Chiesa "Lumen gentium", unitamente al decreto sull’ecumenismo "Unitatis redintegratio". Egli affermò: "Questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo anche noi. Ciò che era, resta. Ciò che per secoli la Chiesa ha insegnato, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso, ciò che era incerto è chiarito; ciò ch’era mediato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione". Il fascino e l’entusiasmo del Concilio sono nel frattempo svaniti. "È cominciato un tempo fatto di sobria considerazione dei fatti, in parte anche di valutazione critica degli eventi conciliari e soprattutto postconciliari - ammette il cardinale -. È succeduta una nuova generazione, per la quale il Concilio è un evento molto lontano e appartenente a un altro tempo, a un tempo nel quale essa non era ancor nemmeno nata e nei confronti del quale non ha alcun rapporto personale, come invece lo aveva la mia generazione. A questa nuova generazione occorre spiegare faticosamente quanto allora avvenne ed entusiasmarla nei suoi confronti. Per questo ci vuole una solida ermeneutica del Concilio". Non bisogna indubbiamente fare del Concilio un mito, nel quale ognuno "proietta e trova i propri pii desideri". Secondo Kasper, occorre piuttosto interpretare con accuratezza i testi conciliari secondo le regole universalmente valide dell’ermeneutica teologica. Nel farlo non bisogna separare "il cosiddetto reale o presunto spirito del Concilio dalla lettera del Concilio", ma occorre piuttosto desumere lo spirito del Concilio dalla sua storia e dai suoi testi. I testi del Concilio vanno compresi alla luce della sua storia e alla luce delle spesso controverse discussioni svoltesi nel suo corso. Poi bisogna interpretare ogni singola formulazione in seno al complesso di tutti i testi conciliari e tener conto, nel farlo, della gerarchia intrinseca dei diversi documenti conciliari. Infine, a giudizio di Kasper, occorre "reinterpretare i testi conciliari alla luce delle fonti, a cui lo stesso Concilio era vincolato e da cui attinse copiosamente". Per un’adeguata ermeneutica conciliare è importante tener conto della ricezione che le affermazioni conciliari hanno trovato nella dottrina e nella vita della Chiesa dopo il Concilio. "Rettamente intesa la ricezione non è un’adozione meccanica, ma un processo ecclesiale vivo guidato dallo Spirito Santo, che si svolge nella dottrina così come in tutta la vita della Chiesa - precisa il porporato -. Nel periodo postconciliare l’esperienza di tutta la storia del concilio ha trovato il suo seguito. Alla controversia attorno alla definizione segue sempre la controversia attorno alla sua ricezione". Già durante il Vaticano II si erano formate due fazioni, che furono presto dette "conservatrice" e, rispettivamente, "progressista". Questi termini ebbero inizialmente un significato diverso da quello che avrebbero assunto dopo il Concilio. "Quelli che allora furono detti progressisti erano infatti in realtà dei conservatori, che volevano riaffermare la tradizione grande e più antica della sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, mentre quelli che allora furono detti conservatori erano unilateralmente fissati sulla tradizione post-tridentina degli ultimi secoli - puntualizza Kasper -. Per tener conto delle giustificate istanze di ambedue le parti e per raggiungere, in corrispondenza a una buona tradizione conciliare, il consenso più ampio possibile, furono necessarie in molti casi delle formule di compromesso, pure questo un fenomeno niente affatto nuovo per chiunque conosca la storia dei Concili". La parola di Kasper ha una grande peso in Curia. Quando nel 2000 la Congregazione per la dottrina della Fede pubblicò la dichiarazione dogmatica "Dominus Iesus" per ribadire l’assoluta unicità di Gesù Cristo in ordine alla salvezza di tutti gli uomini, fu il card. Walter Kasper, che ancora guidava i rapporti ecumenici, a dire che "alcune formulazioni del testo non sono facilmente accessibili ai nostri partner". Tra questi gli ebrei. Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto dell’ex Sant’Uffizio, dovette spiegarsi e dire che restava "evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei è su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l’Antico testamento dei cristiani, per noi non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede".
Giacomo Galeazzi, Vatican Insider