domenica 15 aprile 2012

Il 15 aprile 1962 la lettera di Giovanni XXIII ai 'fratelli nell'episcopato': un vescovo santo conduce, senza dubbio, i suoi sacerdoti alla santità

“Ci muove il desiderio di manifestarti già da ora la particolare gioia che proveremo nel prossimo mese di ottobre, quando potremo abbracciare paternamente tutti i vescovi cattolici”. È un passaggio della “Omnes sane”. È diretta a tutti i presuli del mondo ma non è un’enciclica. È lo stesso Giovanni XXIII a sottolineare la particolarità della lettera che il 15 aprile 1962, Domenica delle Palme (a distanza perciò di una settimana dalla precedente lettera indirizzata al popolo romano), scrive singolarmente, personalmente, a ogni vescovo chiamandolo: “Venerabile e carissimo fratello”. È un segno di amicizia. Anzi, di più: è l’espressione affettuosa e umanamente apprensiva di una persona di famiglia che scriva ai fratelli, per consigliarli, nell’imminenza di un avvenimento che li vedrà coinvolti in prima persona, attori principali di una rappresentazione il cui protagonista assoluto sarà lo Spirito Santo.“Omnes sane...”. “Tutti certamente”, scrive Papa Giovanni, “vediamo quanto sia necessario, avvicinandosi sempre più il Concilio ecumenico Vaticano II, che i fedeli preghino con fervore crescente lo Spirito Santo Paraclito, in modo che con la sua forza e la sua luce assista e guidi coloro che si preparano a impegnarsi per questo importante evento”. Ricordata l’esortazione “Sacrae laudis” con la quale (6 gennaio 1962) invitava tutto il clero a recitare l’Ufficio Divino per la buona riuscita del Concilio, il Papa chiede ai vescovi una preparazione conciliare basata sulla santità di vita, la testimonianza e l’esempio, in ciò aiutati dalla grazia divina ricevuta, in forza della quale essi esercitano nella Chiesa le loro funzioni di ministero, di magistero e di governo. È soprattutto sulla santità di vita che insiste Papa Giovanni, richiamandosi più volte agli insegnamenti di San Paolo (“l’Apostolo delle genti insegna con ponderatezza, chiarezza e forza persuasiva per quali percorsi i vescovi possano raggiungere questo obiettivo”) e dicendosi convinto che solo vivendo la santità i fratelli nell’episcopato potranno cooperare per il successo dell’assemblea ecumenica, “facendo in modo che la Chiesa cattolica si presenti al mondo come Sposa di Cristo santa e immacolata”. “È grande la consolazione dei sacerdoti e dei fedeli a te affidati”, osserva il Papa, “quando vedono il loro pastore dedicarsi con tutte le sue energie alla santità, precedendo gli altri con l’esempio”. E conclude: “Un vescovo santo conduce, senza dubbio, i suoi sacerdoti alla santità”. Giovanni XXIII, abbiamo visto, firma la “Omnes sane” nella Domenica delle Palme. È quasi inevitabile perciò un riferimento al Giovedì santo, “giorno sacerdotale”, in quanto si rinnova il ricordo dell’istituzione del sacerdozio cattolico. Il Papa commenta: “Noi pensiamo che potrebbe essere definito più esattamente ‘giorno episcopale’, tenendo conto che Cristo ha conferito la consacrazione episcopale ai suoi apostoli, dei quali i pastori della Chiesa sono i legittimi successori”. E ricorda che proprio in quel giorno conferirà la dignità episcopale a dodici cardinali appartenenti all’ordine dei diaconi. Nel finale della lettera Giovanni XXIII si richiama ancora una volta alle parole dell’apostolo Paolo ai Corinzi: “Vi abbiamo parlato apertamente, il nostro cuore si è allargato”, per osservare che “anche il nostro animo si apre alla gioia di fronte al meraviglioso spettacolo di unità, di generosità e di zelo pastorale offerto da tutti i vescovi del mondo cattolico nell’avvicinarsi del Concilio”. In conclusione, dopo l’invito a pregare la Vergine Madre di Dio e san Giuseppe, alla cui protezione è affidato il Concilio, Papa Giovanni fa sua la preghiera dell’Imitazione di Cristo, adattandola alle necessità dei vescovi, consapevole “di quanto le nostre forze siano così fragili di fronte a tanto impegnativo compito”: “Aiutaci con la tua grazia, o Dio Onnipotente, affinché noi che abbiamo ricevuto l’ufficio episcopale possiamo degnamente e devotamente servirti con tutta la purezza e la buona coscienza. E se non potremo vivere con quella innocenza di vita che si dovrebbe, concedici almeno di pentirci, come è dovuto, delle colpe commesse, e servirti con più fervore nel futuro, in spirito di umiltà e con propositi di buona volontà”.

SIR