lunedì 15 ottobre 2012

La prima settimana di lavori sinodali: quel che più conta è l’animo prevalente nei partecipanti, parole misurate ma chiare che confermano la partenza con il piede giusto per un compito non semplice affidato dal Papa

Sono già emerse proposte pastorali concrete allo scadere della prima settimana di lavori sinodali, ma quel che più conta, in attesa delle conclusioni, è l’animo prevalente nei Padri sinodali e negli altri partecipanti ai lavori. Parole misurate, ma chiare che confermano la partenza con il piede giusto per un compito non semplice affidato dal Papa. La nuova evangelizzazione è da lui intesa come orientata principalmente alle persone battezzate che si sono allontanate dalla Chiesa e vivono senza più riferirsi alla prassi cristiana. Come dire: lanciare un progetto per rivitalizzare la fede nei paesi di antica cristianità senza rinunciare ad annunciare il vangelo a coloro che ancora non conoscono Cristo. La Chiesa in questo compito non è chiamata tanto a fare, a strutturarsi in forme sociologicamente più efficaci, quanto piuttosto a far conoscere ciò che Dio ha fatto e, quindi, anzitutto pregarlo. La preghiera infatti è la condizione indispensabile per aprire in questo modo, quasi con un filo diretto, una nuova pentecoste e capire dove Dio vuole guidare la sua Chiesa. Davanti ai Padri sinodali radunati nella concelebrazione solenne di apertura, Benedetto XVI ha premesso che l’unica prospettiva di riuscita dei lavori è fissare lo sguardo sul Signore Gesù, ripetendo con disarmante chiarezza che il Crocifisso, quale segno di amore e di pace, appello alla conversione e alla riconciliazione, è per eccellenza il segno distintivo di chi annuncia il Vangelo. Il Sinodo pare finora rispondere bene a questa dinamica messa in moto dal Pontefice. Nei tanti interventi non vi è traccia di trionfalismo, ma è presente una percezione diffusa dei limiti in ogni campo di azione pastorale, di impegno culturale e sociale della Chiesa intesa come comunione, popolo di Dio costituito di chierici e laici. La primaria responsabilità nell’affievolirsi della fede nei paesi di più antica cristianità è dovuta anzitutto alla frammentaria responsabilità degli stessi cristiani, deboli nella testimonianza perché meno a conoscenza e meno convinti dell’annuncio. Moltissimi tra gli interventi registrati nella prima settimana di lavori pongono l’urgenza di riconoscere a Gesù Cristo il primo posto nella vita ordinaria delle comunità cristiane. E si avverte allo stesso tempo un senso di pentimento per le omissioni, per le colpe individuali e collettive che hanno contribuito ad appannare la fede cristiana. Nello stile del concilio Vaticano II, gli interventi situano i lavori sinodali entro il cammino dei nostri contemporanei senza nostalgia del passato, per riuscire così a portare nuovamente la luce di Dio e ritrovare, per dirla con uno dei Padri sinodali, la forza propulsiva del Vangelo che sembra divenuta flebile agli occhi dei uomini d’oggi. Suggestive alcune immagini usate nell’aula sinodale per rendere la nuova evangelizzazione moderna ed efficace: la fede intesa come stile di vita che avvicina agli altri; cambiare la mentalità che la fede sia un’appartenenza a una fazione sociologica militante e violenta; ripartire da Gerusalemme, dove la prima comunità cristiana si ancorò a Cristo avendo una causa per la quale era disposta ad affrontare ogni sacrificio e il dono della vita stessa. Chiedersi, in altri termini, quanti cristiani oggi sarebbero disposti anche a morire per Gesù Cristo. Una domanda che riecheggia quelle fondamentali rivolte da Paolo VI alla Chiesa riunita in Concilio: Chiesa che dici di te? Che dici di Cristo?. Domande ancora attuali per dare senso all’evangelizzazione.

Carlo di Cicco, L'Osservatore Romano