lunedì 12 gennaio 2009

Il Vaticano parla piemontese

di Giacomo Galeazzi
La Stampa


La Curia parla sempre più piemontese. Dal «premier» della Santa Sede Tarcisio Bertone (di Romano Canavese) al governatore vaticano Giovanni Lajolo (Novara), dal Decano del Sacro Collegio Angelo Sodano (Isola d’Asti) al portavoce papale Federico Lombardi (Saluzzo), dal sottosegretario Cei Mauro Rivella (Moncalieri) al «sindaco» d’Oltretevere Renato Boccardo (Sant’Ambrogio), dal rappresentante all’Onu Celestino Migliore (Cuneo) al delegato pontificio a Strasburgo Aldo Giordano (Cuneo), dall’arciprete torinese della basilica di San Paolo Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, al vicecamerlengo Paolo Sardi (Ricaldone), dal sottosegretario al Clero Giovanni Carrù (Torino) al presidente della commissione episcopale per i Problemi sociali Arrigo Miglio (San Giorgio Canavese), dal nunzio apostolico in Italia Giuseppe Bertello (Foglizzo) al presidente dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica Francesco Marchisano (Racconigi). Mai come oggi i vertici della Chiesa sono «made in Piemonte». Benedetto XVI ha tra i suoi più stretti collaboratori cardinali, vescovi e prelati arrivati nella città eterna dalle otto province sabaude. Una presenza capillare e senza eguali che svaria dal collegio cardinalizio (Francesco Marchisano, Giovanni Canestri, Carlo Furno, Lorenzo Antonetti, Giovanni Cheli, Carlo Maria Martini, Giovanni Coppa), alla Segreteria di Stato, dalle commissioni Cei (Luciano Pacomio alla Dottrina della fede, Renato Corti alla Vita consacrata, Piergiorgio Debernardi all’Ecumenismo, Enrico Masseroni all’Educazione cattolica) ai nunzi apostolici.Un’«occupazione» delle Sacre Stanze che trae origine da diocesi-fucine di carriere ecclesiastiche. «Dove si sono fermati i bersaglieri di Porta Pia, si sono spinti i monsignori piemontesi», sorridono al Palazzo Apostolico. «Sono il frutto del cattolicesimo sociale sabaudo, l’ondata verso Roma di una regione fino a pochi decenni fa ricchissima di vocazioni- spiega Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano- La massiccia presenza in Curia di ecclesiastici piemontesi nasce da un fenomeno storicamente rilevante che per tutto il Novecento portava le diocesi del Piemonte a mandare a studiare a Roma i seminaristi migliori. Molti di loro restavano al servizio della Santa Sede e ora li troviamo nella cabina di regia della Chiesa, molto apprezzati da un autentico uomo d’apparato come Joseph Ratzinger». Una «piemontesizzazione» dei dicasteri vaticani e della diplomazia d’Oltrevere condotta nel segno dell’astigiano Don Bosco. «L’influenza sabauda in Curia è cresciuta di pari passo con la ramificazione in Vaticano della presenza salesiana - analizza la torinese Lucetta Scaraffia, storica del cristianesimo, membro del Comitato nazionale di bioetica ed editorialista dell’Osservatore Romano - Da quando Pio XI li valorizzò per il carattere fattivo e pragmatico del loro ordine, i salesiani, che si aiutano molto fra di loro, hanno allargato le loro competenze dalle attività sociali e dalla formazione dei giovani agli incarichi di responsabilità nelle congregazioni e all’impegno intellettuale. Non a caso oggi il bibliotecario del Vaticano è il cardinale Farina, un salesiano, cosa impensabile fino a poco tempo fa». A rendere particolarmente adatti i presuli sabaudi alla cooptazione nel «Gotha» ecclesiastico è l’innata identificazione con l’istituzione. «Più delle altre regioni, noi piemontesi abbiamo un radicato senso istituzionale - puntualizza Scaraffia- Gli ecclesiastici approdati in Vaticano dal Piemonte si sono sentiti subito parte della Santa Sede. Noi che abbiamo avuto una monarchia, avvertiamo spontaneamente, per tradizione e radici, il legame con l’istituzione». Una «risorsa» nella Chiesa di Wojtyla e Ratzinger, insomma. «Nel momento in cui la Chiesa è stata in crisi le peculiarità piemontesi sono risultate premianti - osserva Scaraffia - Per superare i tormenti postconciliari dell’istituzione-Chiesa servivano profili istituzionali garantiti, prelati capaci di essere fedeli e di apprezzare l’istituzione in un momento in cui non era molto accreditata». L’arcidiocesi di Torino vanta il primato regionale per numero di esponenti del proprio clero arrivati a indossare le vesti purpuree e violacee (Mana, Fiandino. Micchiardi, Maritano, Sibilla, Chenis, Martini, Lanzetti, Ellena, Marchisano, Giovenale). Ben rappresentata da propri «figli» nel collegio episcopale è anche la diocesi di Novara (Zaccheo, Masseroni, Ciocca Vasino, Moretti, Antonetti, Lajolo). «Fabbriche» vescovili e cardinalizie sono pure le diocesi di Ivrea (Bertello, Miglio, Debernardi, Bertone , Careggio), Alessandria (Badini Confalonieri, Canestri, Pasqualotto), Cuneo (Guerrini, Migliore). Stessa «vocazione curiale» per Alba, Asti, Vercelli, Casale Monferrato, Mondovì, Biella, Acqui, Saluzzo, Susa e Pinerolo. «Il filo che tiene unite tante personalità diverse per temperamento e storia personale è la comune radice del cattolicesimo sociale piemontese, quello di Cottolengo, don Bosco e Cafasso- sottolinea padre Federico Lombardi, Assistente generale dei gesuiti, nonché direttore di Radio Vaticana, Sala Stampa Vaticana e Centro televisivo Vaticano (Ctv)-. E’ la fede dei grandi apostoli della misericordia come don Luigi Orione, fondatore della Piccola Opera della divina provvidenza e della Congregazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità, che iniziò occupandosi di gioventù e assistenza ai poveri e poi di problemi sociali ed ecclesiali. Oggi l’istituto da lui fondato conta 1.035 religiosi: tre vescovi, 751 sacerdoti, 65 fratelli, 7 eremiti. E svolgono la loro opera in 269 località in 30 nazioni». Simbolo del «cattolicesimo del fare» di marca piemontese.

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