martedì 4 maggio 2010

Il Papa a Torino. L'abbraccio di tutto il Cottolengo a Benedetto XVI: le sue parole ci hanno restituito un ruolo nella società. Il bacio di Angela

Per lei, il mondo è racchiuso nella mano della 'sua' suo­ra. È sfiorando quella pelle raggrinzita dagli anni, è inse­guendo quelle dita veloci con i suoi polpastrelli, è sfiorando il dorso nel riconoscersi l’un l’altra che Angela Villani si muove nel buio che la circonda dalla nasci­ta. Buio pesto, in tutti i sensi: l’o­spite della Piccola Casa della Di­vina Provvidenza, una dei dieci malati scelti per salutare il Papa al termine dell’incontro di dome­nica nella chiesa dell’istituto, è cieca ma anche sorda ed è sorda oltre che muta. Una testimone di quella "quotidiana sofferenza" che Benedetto XVI è venuto a in­contrare al Cottolengo, la tappa più calda del pellegrinaggio. Sommersa dai cori delle juniores, le suorine venute da tutto il mon­do per festeggiare la seconda visi­ta di un Papa, sover­chiata dagli applausi che faceva­no rimbombare la chiesa edifica­ta poco dopo la morte del fonda­tore, facendosi largo nella selva di carrozzelle e lettighe che, letteral­mente, abbracciavano il Santo Pa­dre, Angela si è trovata di fronte a lui senza potergli dire una parola. Così, ha parlato con un bacio, stampato sulla guancia del Papa. Immaginatevi gli sguardi del ce­rimoniale vaticano. Immaginia­moci quello di San Giuseppe Be­nedetto Cottolengo: avrebbe sor­riso, lui che definiva la sofferenza "una carezza della Sua mano" non avrebbe trovato nulla di strano. Ha sorriso e ha ricambiato il bacio con una carezza anche Joseph Ratzinger. Aveva appena spiegato che l’insegnamento di San Giu­seppe Benedetto Cottolengo con­siste nel "ristabilire e valorizzare tutto l’umano" portando "la per­sona a sentirsi ancora parte viva della comunità ecclesiale e del tessuto sociale". L’aveva appena chiamato "grande apostolo della carità". Soprattutto, aveva esorta­to Angela e gli altri malati a non sentirsi "estranei al destino del mondo". Li aveva chiamati, pochi minuti prima, "tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno". Infine, in perfetta assonanza con il tema del pellegrinaggio, che è "Passio Christi, passio hominis", a­veva rivisto nei loro volti sofferenti un riflesso della "Sacra Sindone, in cui possiamo leggere tutto il dramma della sofferenza, ma an­che, alla luce della Risurrezione di Cristo, il pieno significato che es­sa assume per la redenzione del mondo". Parole che hanno lasciato un se­gno profondo, e non solo nei ma­­lati, "confermandoci nella fede e anche nella convinzione che la nostra missione ha un ruolo pre­ciso nell’opera di evangelizzazio­ne della Chiesa", come commen­tava, al termine, don Carmine A­rice, responsabile dell’ufficio pa­storale della Piccola Casa. Accol­to dai superiori delle famiglie religiose fondate dal Santo, don Al­do Sarotto (sacerdoti), suor Gio­vanna Massé (suore) e Giuseppe Meneghini (fratelli), Benedetto X­VI non ha nascosto la commozio­ne di fronte a Maria Luisa Buttini, una mamma in cura al reparto on­cologico che gli chiedeva "solo u­na preghiera", e al piccolo Bogdar, imprigionato nel proprio corpo. Icone della sofferenza di Gesù e al tempo stesso volti che sotto il pe­so della loro croce non hanno per­duto né dignità né speranza. "Non ci sono parole per descrive­re quello che si prova a incontra­re il Papa", ci raccontava, all’uscita, Vito D’Andrea. È nato senza braccia né gambe, "quando i bambini non si operavano, sem­plicemente li si abbandonava". Vi­to ha 59 anni, è di Avellino ma vi­ve da sempre al Cottolengo. Sulla sua carrozzella è andato a scuola, ha imparato a usare il computer e oggi disegna spazi web per la Pic­cola Casa. "Non servono le mani, né piedi; serve l’intelligenza", ti dice con un sorriso aperto e poi, quasi rivelandoti un segreto, ag­giunge: "Purché non si resti soli". La Piccola Casa, che il fondatore ha organizzato in famiglie, mi­crocomunità di 10-15 ospiti, aiu­ta a credere di essere veramente "parte viva della comunità" come ha detto il Papa. Uscendo dalla chiesa abbiamo in­contrato anche Teresina Belardi­nelli. Gira su una carrozzella che porta una vistosa targa automo­bilistica: 'TI AMO'. Era una ra­gazzina quando, negli anni Cinquanta, le diagnosticarono una forma di distrofia muscolare e il padre la ricoverò qui. Ammette: "Fu una tragedia all’inizio, perché sognavo di uscire con le amiche, innamorarmi, sposarmi e invece mi vedevo condannata a vivere in un mondo di malati". Oggi Tere­sina è una delle più convinte te­stimonial della speranza e della sacralità della vita. Della giovi­nezza che lasciò 'fuori' conserva la schiettezza: "Le parole del Pa­pa – è stato il suo commento al termine della visita – ci hanno re­stituito un ruolo nella società, ma la società è ancora ferma ai luoghi comuni, alle paure. Credeteci, il Cottolengo non è la casa dei 'mo­stri': venite a trovarci. Non c’è so­lo dolore".

Paolo Viana, Avvenire