lunedì 26 settembre 2011

Il Papa in Germania. Ciò che l’antico ragazzo è tornato a dire è in fondo una cosa sola: credete davvero che si possa vivere senza Dio?

Un uomo anziano torna nella sua terra, da cui manca da tempo. È il Paese in cui è nato, ha visto il nazismo e la guerra, e in cui è diventato sacerdote. L’uomo che torna ha 84 anni, e molte cose da dire alla sua gente, in quel grande Paese nel cuore d’Europa. Lo emoziona forse, e lo commuove, parlare nella sua lingua, e sentire voci infantili che la parlano. Ma l’uomo bussa discretamente alla porta, come un viandante gentile al quale si può scegliere di aprire, o no. Ciò che l’antico ragazzo è tornato a dire è una moltitudine di cose, ma, in fondo, una sola: credete davvero, figli, e compagni della mia giovinezza, che si possa vivere senza il Dio su cui questa nostra terra è radicata? Benedetto XVI lo ha chiesto nell’ex convento degli Agostiniani a Erfurt: "L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui?". Perché, ha aggiunto, "quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio". E sembra proprio che non solo la Germania ma l’Europa sia in questo chiaroscuro, in cui una memoria di Dio, una conoscenza del bene e del male persiste, ma ormai soltanto e appena tramandata. Mentre già vistose lacerazioni si aprono nel vivere comune, nella concezione dell’amore, nel senso del generare figli. Abbiamo ancora bisogno di Dio, oppure ne possiamo fare a meno? L’anziano Joseph Ratzinger ripropone alla sua gente questa domanda: dal Parlamento alle piazze, con umile mendicante tenacia. La pone nel Reichstag, a Berlino, dove "noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto". Così che lo Stato era diventato "una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio". Proprio qui Benedetto XVI dice che la politica è impegno per la giustizia. E indica la preghiera del giovane re Salomone: "Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male". Perché, obiettèrà qualcuno senza memoria, abbiamo forse bisogno di Dio per praticare la giustizia? Di che cosa sia capace l’uomo che rifiuta Dio, e quale volto possa assumere un popolo nel "no" a tale Dio, lo sappiamo, lo abbiamo visto, ricorda dolente il Papa alla comunità ebraica. E l’ospite tornato da lontano affronta e smonta i dogmi su cui tacitamente conveniamo: quando "è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta", avverte in Parlamento. E "non è l’autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona", afferma a Etzelsbach, contravvenendo a una fra le più solide delle nostre comuni e idolatrate convinzioni. Lo stesso elogio al grido degli ecologisti introduce a una più profonda idea di "ecologia dell’uomo": anche l’uomo, ricorda, possiede una natura che non può manipolare a piacere: "L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé". Benedetto XVI guarda al nostro vivere, a Berlino come a Roma, nel dominio di quella ragione positivista in cui giaciamo: che assomiglia, dice, "agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio". Ma cosa indica infine il viandante mite? "Il volto di una donna di mezza età con le palpebre appesantite dal molto pianto", quella Madonna di Etzelsbach col Figlio morto fra le braccia. Indica, opposto alla "realizzazione di sé", il dono; al posto della autoaffermazione, l’arrendersi a Cristo. Paradossale parola di un uomo ritornato fra i suoi, come un padre, con l’ansia di chi vuole condividere un tesoro. Propone, a bassa voce, uno scandaloso, capovolto sguardo sulla realtà. E gli uomini, interdetti, restano a ascoltare; come intendendo l’eco di una bellezza scordata o rinnegata, di cui pure hanno una oscura, inammissibile nostalgia.

Marina Corradi, Avvenire