venerdì 25 novembre 2011

Il governo tecnico di Benedetto XVI per rifare la Chiesa d’Irlanda. Via i vescovi locali, arrivano americani e uomini fidati di Dottrina della Fede

L’estate scorsa padre Vincent Twomey, ex allievo di Benedetto XVI e docente al seminario irlandese di Maynooth, propose di risollevare l’immagine della Chiesa devota a San Patrizio macchiata dal problema della pedofilia del clero con una terapia d’urto, che prevedeva le dimissioni di tutti i vescovi nominati prima del 2003 in quanto colpevoli, a suo dire, di aver coperto i preti senza rimuoverli. In molti lo presero per pazzo. Ma c’era del metodo. A partire dalla data: il 2003, ovvero prima che l’allora card. Ratzinger ottenesse da Giovanni Paolo II la concessione di alcune facoltà speciali per offrire maggiore flessibilità nelle procedure penali per i “delicta graviora”, fra cui l’uso del processo penale amministrativo e la richiesta delle dimissioni ex officio nei casi più gravi. “E’ l’unica strada per garantire la trasparenza nello scandalo pedofilia” spiegò Twomey, guadagnandosi diverse critiche provenienti più che altro dalle stesse gerarchie irlandesi, non certo dal popolo. E non certo da Roma. Il silenzio della Santa Sede in merito fu piuttosto eloquente e oggi, a qualche mese di distanza, se ne comprende il motivo. La “proposta Twomey”, infatti, è stata messa in pratica de facto, con la decisione di lasciare vacanti tutte le sedi dalle quali, ufficialmente per limiti di età o per problemi di salute, i vescovi si sono dimessi. Oggi sette delle circa venti diocesi d’Irlanda (l’ultimo a lasciare è stato il vescovo di Derry, Séamus Hegarty) sono senza guida ufficiale, mentre altre sono governate da amministratori apostolici, voluti da Roma per traghettare le diocesi verso la definitiva ristrutturazione che prevede anche accorpamenti tra le diverse sedi. Sono due gli uomini chiave sui quali la Santa Sede punta per rifare daccapo l’episcopato d’Irlanda. Il primo è mons. Charles J. Brown, 52 anni, aiutante di studio della Congregazione per la Dttrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione teologica internazionale. Secondo indiscrezioni rilanciate anche dall’Irish Times (fonti vaticane hanno confermato a Il Foglio la notizia) verrà presto chiamato a Dublino quale nuovo nunzio apostolico. L’incarico è anch’esso vacante da mesi. La scorsa estate, infatti, dopo che il primo ministro Enda Kenny, report governativi alla mano, accusò i massimi vertici della gerarchia cattolica di aver protetto i preti pedofili nella diocesi di Cloyne governata fino al 2010 dal “segretario di tre Pontefici” John Magee, la Santa Sede richiamò a Roma il nunzio, mons. Giuseppe Leanza, per poi destinarlo in Repubblica Ceca. La scelta di Brown è significativa. Egli, infatti, pur non venendo dalla diplomazia della Santa Sede è persona conosciuta e stimata all’interno della Segreteria di Stato vaticana. Da anni lavora nella Curia romana, per dieci anni ha lavorato a stretto contatto con Joseph Ratzinger nell’ex Sant’Uffizio. Inoltre è di origini statunitensi e, dunque, è di lingua inglese senza essere uomo dell’apparato irlandese. Ha studiato Storia all’Università di Notre Dame. Si è poi specializzato nelle Università di Oxford, Toronto e al Pontificio ateneo di Sant’Anselmo a Roma. La sua nomina conferma l’ascesa di una nuova leva di statunitensi nei posti diplomatici che contano. Un’ascesa che ha nel giovane Peter Brian Wells, assessore per gli Affari generali della segreteria di stato, un suo esponente di peso. Che Brown sia nato negli Stati Uniti è un segnale importante anche per un altro motivo. Non è escluso che molti dei nuovi vescovi che Benedetto XVI nominerà in Irlanda verranno proprio dagli Stati Uniti. La cosa ha del clamoroso (è del tutto inusuale che in Europa vengano portati all’episcopato presuli di altri continenti) e fa capire quanto la situazione sia compromessa nel Paese. Dice il biografo di Giovanni Paolo II George Weigel che l’idea di chiamare vescovi dagli Stati Uniti non è così peregrina: “Oggi l’Irlanda è terra di missione come un tempo lo erano gli Stati Uniti. Nel 1921 un irlandese, Michael Joseph Curley, divenne arcivescovo di Baltimora (Maryland) in un momento in cui i pregiudizi anti irlandesi e anti cattolici erano molto vivi. Per questo motivo oggi non sarebbe così strano che un presule magari nato a Los Angeles e poi formatosi a Denver, oppure nato a New Orleans con studi teologici a Washington, attraversi l’oceano Atlantico con destinazione Dublino”. E ancora: “L’Irlanda ha bisogno di una rievangelizzazione e, dunque, di vescovi che abbiano dentro di sé il fuoco del Vangelo. Uomini che possano fare una proposta cristiana convincente in mezzo a diffuso cinismo e amarezza”. Oltre a Brown c’è un’altra personalità alla quale la Santa Sede guarda da tempo. E’ l’unico vescovo che non dovrebbe essere toccato dalla ristrutturazione choc che segue la proposta di Twomey. Si tratta dell’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin, che nella Curia romana ha reso un lungo servizio dal 1986 al 2001 come sottosegretario e poi segretario di Giustizia e Pace, tra i primi a fare propria la linea di maggior rigore del Papa. Martin ha fatto tanto, nei mesi passati, per smarcarsi dai suoi confratelli nell’episcopato. E’ riuscito anche a diventare l’“eroe” del New York Times. E’ stata Maureen Dowd, lo scorso giugno, a rendere nota una conversazione avvenuta tra lei e Martin nella quale la columnist del quotidiano newyorchese arriva a dire che “Martin, da sempre dalla parte delle vittime, è un outsider” di una gerarchia dove spiccano in negativo i nomi del card. Bernard Law, ex arcivescovo di Boston che a seguito del deflagrare in diocesi del problema pedofilia si trasferì a Roma per divenire arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, e di Angelo Sodano, l’ex segretario di stato vaticano “che difese il noto pedofilo e padre di più figli Marcial Maciel Degollado”, fondatore dei Legionari di Cristo. Il compito di Brown e di Martin non è facile. Contro il Vaticano e l’idea dell’azzeramento delle gerarchie resiste ancora con tenacia una parte consistente dell’episcopato. In particolare quattro arcivescovi, guidati dal card. Seán Brady, resistono strenuamente a ogni modifica dei confini diocesani. Recentemente la Santa Sede ha spinto perché un comitato ad hoc (vi lavorano anche alcuni dei visitatori apostolici mandati in Irlanda nel 2010 dal Papa) si riunisse con l’obiettivo dichiarato di elaborare un piano che avrebbe dovuto eliminare le diocesi più piccole, fissando un limite minimo di 100mila cattolici per diocesi. Questo piano potrebbe avere ripercussioni dirette sulle diocesi di Cashel e Emly, Achonry, Ardagh e Clonmacnoise, Clogher, Clonfert, Dromore, Elphin, Killala, Kilmore, Ossory e Raphoe.

Paolo Rodari, Il Foglio