mercoledì 2 marzo 2011

'Gesù di Nazaret - Secondo volume'. Anticipazioni (3). La pace non può essere stabilita contro la verità. Il popolo d'Israele non chiese la condanna

Quando i Vangeli dicono che furono i ''Giudei'' ad accusare Gesù e a chiderne la condanna a morte, questo non significa che si tratti di tutto il ''popolo di Israele''. ''Domandiamoci anzitutto - si chiede il Papa in ''Gesù davanti a Pilato", terzo punto del capitolo settimo, dal titolo ''Il processo a Gesù'' -: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i 'Giudei'. Ma questa espressione - sottolinea Papa Ratzinger -, in Giovanni, non indica affatto - come il lettore moderno forse tende ad interpretare - il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere 'razzista'''. Nel Vangelo di Marco, invece, si parla di ''una quantità di gente, la 'massa''', da identificare con i sostenitori di Barabba. ''In ogni caso - precisa il Papa - con ciò non è indicato 'il popolo' degli Ebrei come tale''. Quando Matteo fa riferimento a ''tutto il popolo'', per il Pontefice, ''sicuramente non esprime un fatto storico'' mentre ''il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell'amnistia pasquale, si associa ad essi la 'massa' dei sostenitori di Barabba''. Quando Gesù, nell'interrogatorio subito da Ponzio Pilato di cui riferisce il Vangelo di Giovanni afferma di essere 're', egli rivendica una ''regalità e un regno'' totalmente diversi da quelli a cui erano abituati i governanti dell'epoca, ''con l'annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno - niente di ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani. Questo regno è non violento. Non dispo ne di alcuna legione''. Il regno di Gesù è fondato sulla ''verità''. Ma in che modo la verità può essere fondamento di un ''potere''?, si chiede Papa Ratzinger. ''Verità ed opinione errata, verità e menzogna - scrive il Pontefice - nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verita' in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è 'vero' nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito... In questo senso, la verità è il vero 're' che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza... Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo''. E se oggi la scienza sembra aver reso il mondo intellegibile e quindi aver rivelato la 'verità' su di esso, Benedetto XVI ribatte che è solo la ''verità funzionale sull'uomo'' a essere ''diventata visibile. Ma la verità su lui stesso - su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male - quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per 'la verità' stessa - per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo''. ''Anche oggi - nota Papa Ratzinger -, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. 'Redenzione' nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile''. Di qui, la riflessione del Pontefice su Pilato: ''La grande verità, di cui aveva parlato Gesù, gli è rimasta inaccessibile; la verità concreta di questo caso, però, Pilato la conosceva bene. Sapeva che questo Gesù non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico - sapeva quindi che era da prosciogliere. Come prefetto egli rappresentava il diritto romano su cui si basava la pax romana - la pace dell'impero che abbracciava il mondo. Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma. Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace''. Infatti, scrive il Papa, ''la pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l'ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare. Pilato - lo ripetiamo - conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui''.
Per Benedetto XVI, Ponzio Pilato era convinto della innocenza di Gesù ma decise di mettere la ''pace'', assicurata dalla stabilità delle istituzioni e della forza militare dell'impero romano, alla ''giustizia''. Il Pontefice afferma: ''Alla fine vinse in lui l'interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto...Un'assoluzione dell'innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente - il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire -, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto - la sua funzione pacificatrice. Così forse calmò la sua coscienza. Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto, però, che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi''.

Asca

Gesù davanti a Pilato - il testo integrale