mercoledì 29 giugno 2011

60° anniversario di Ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI. Il ricordo di due preti ordinati con lui: da quel 29 giugno è rimasto l'amico di sempre

Provincia tranquilla e città frenetica. Traunstein e Monaco. Sono i luoghi in cui vivono due dei compagni di Messa di Benedetto XVI che giusto sessant’anni dopo l’ordinazione, avvenuta a Frisinga per le mani del cardinale Michael von Faulhaber, ricordano la vita insieme in seminario. E dicono: da quel 29 giugno a oggi è rimasto l’amico di sempre. Poco sopra Traunstein, Alta Baviera, i colli immersi nel verde con i cavalli che pascolano allo stato brado formano un paesaggio idilliaco. Quando, da ragazzo, abitava nella frazione di Hufschlag, che significa "colpo di zoccolo", il Papa ogni giorno attraversava questo spettacolo naturale per recarsi nel ginnasio del Paese. E non mancava mai la sosta per la preghiera nella chiesa di Sant’Osvaldo, proprio quella dove l’8 luglio del 1951 celebrò la sua prima Messa. E dove adesso davanti al portale campeggia un suo busto da Pontefice. Siamo nel cuore della religiosità da cui è scaturita la vocazione dei fratelli Ratzinger. Nume tutelare dei luoghi è Rupert Berger, classe 1926, loro compagno di seminario. Dopo una vita da parroco in un paese vicino e un’apprezzata attività di liturgista e pastoralista, Berger è tornato alle origini e aiuta l’attuale parroco. Che la sua vita sia strettamente intrecciata a quella dei Ratzinger lo si capisce davanti alla sua casa, in un angoletto tranquillo del paese. Sul muro un cartello del Benediktweg, l’itinerario che contrassegna i luoghi ratzingeriani della Baviera, avverte che la Casetta del Parroco, risalente al Settecento, ospitò dal 1958 al 1964 Georg Ratzinger, direttore del coro di Sant’Osvaldo, e i genitori, che qui morirono: nel 1959, il padre Joseph, e nel 1963, la madre Maria. A Traunstein c’è anche il seminario minore che i Ratzinger frequentarono prima della guerra. Poi fu adibito a ospedale, proprio come quello maggiore di Frisinga. Subito dopo il ritorno a casa, alla fine del 1945, i tre, Georg, Joseph e Rupert, si trovarono nella comunità per futuri sacerdoti. La religiosità delle famiglie aveva creato il terreno per il grande passo. Ma anche esempi di preti nella stessa famiglia (Berger ne aveva uno) o giovani cappellani visti come esempio. C’era poi la durezza dei tempi. Il padre di Berger, sindaco di Traunstein ed esponente del partito cattolico bavarese, era stato internato a Dachau per la sua ostilità al regime. "Il nazismo lo rigettavamo al cento per cento. Potrei dire che odiavamo i nazisti, se l’odio non fosse un sentimento poco cristiano", rimemora Berger. E dunque c’era la coscienza di essere dei ricostruttori. Spirituali, non solo materiali. Ristrettezze in seminario a Frisinga c’erano. Chi non poteva pagare la retta riceveva un aiuto. Ma almeno il cibo era garantito dall’annessa azienda agricola, proprietà della diocesi. Tra le camerate, i due fratelli erano ben distinti da un soprannome. Georg era l’Orgel-Ratzi, l’organista, l’altro Bücher-Ratzi, lo studioso. L’amicizia crebbe. E la comunità non si scioglieva neanche in vacanza. Quando c’erano tre mesi di ferie tra i semestri, i seminaristi di Traunstein organizzavano passeggiate di gruppo in montagna, e discutevano l’un con l’altro. Rupert e Joseph furono mandati a studiare anche all’Università di Monaco e vivevano nel Collegio Ducale Georgianum. Lì le condizioni materiali erano peggiori. Ma c’erano teatri di prosa e d’opera, che i due frequentavano assiduamente. Il quartiere di Schwabing era il cuore artistico e letterario della città. Un cuore un po’ "bohemienne", "certo poco adatto a un prete", sorride Berger. Ma quando si trattava di studiare, niente fermava Bücher-Ratzi. Quando lavorava alla disseratazione per il dottorato, niente svaghi. Insomma, già allora uno studioso serissimo, ma anche un amico e un uomo alla mano. Ancora oggi che è sulla cattedra di Pietro. "Sì lui è davvero rimasto così come era", afferma Berger. Anche Friedrich Zimmermann, che invece è di Monaco, dove è stato a lungo parroco, ricorda la vita insieme, fatta di preghiera e amicizia, "Ratzinger è sempre stato una persona amichevole e amabile. Ma anche riservata. I due fratelli facevano parte del gruppo che veniva da Traunstein e noi eravamo di Monaco ed eravamo di più. Ma ci siamo capiti benissimo. Tanto che l’amicizia e la fratellanza sacerdotale sono durate anche dopo l’ordinazione", rievoca l’85enne prete, che è portavoce di quel corso di seminario. A far sentire il gruppo ancora più unito è stata, poi, la "grande gioia con cui abbiamo cominciato insieme nel 1946. Dopo le incertezze sul nostro futuro dovute alla guerra, al nazionalsocialismo, ora potevamo ricominciare, eravamo vicino all’obiettivo della nostra vita". Molti di questi aspiranti sacerdoti, infatti, avevano visto il loro percorso interrotto dalla catastrofe. Ma le radici erano forti, tanto che sessant’anni dopo Zimmermann sottolinea la volontà comune che animava tutti: essere vicini, con l’annuncio del Vangelo e i sacramenti, a chi gioisce e a chi soffre. Loro lo sono stati, come cappellani, in una Monaco distrutta. "Volevamo essere sempre a disposizione delle persone", spiega Zimmermann. Una comunità che si è poi divisa nei vari servizi alla Chiesa. Chi è stato solo parroco. Chi professore di teologia, di pastorale e di liturgia. Chi è diventato vescovo. Oltre a Papa Ratzinger, tra quei 45 consacrati nel 1951 altri due, oggi scomparsi: Franz Schwarzenböck e Heinrich von Soden-Fraunhofen, entrambi ausiliari di Monaco. Tanto che quella nidiata fu chiamata la Drei-Bischöfe-Weihe, l’ordinazione dei tre vescovi. In tutto una dozzina di quei sacerdoti è ancora in vita. E si sono sempre riuniti per celebrare gli anniversari. Così è stato per il 40° e per il 50°, ricorda il loro portavoce. E sia Rupert sia "Fritz" saranno, con il fratello Georg nella delegazione dell’arcidiocesi bavarese che celebrerà a Roma con l’amico Papa. "L’elezione fu una sorpresa – conclude Zimmermann –. Ma per noi è, come un tempo, un confratello. Siamo stati due volte a trovarlo in Vaticano e tra noi parliamo proprio come facevamo allora".

Gianni Santamaria, Avvenire