venerdì 17 febbraio 2012

Un papato penitenziale. L’isolamento quaresimale di Benedetto XVI e d’una Chiesa di cui tutti parlano ma non per questioni di fede

Il tramestio di questi giorni, i leaks che escono dal Vaticano e finiscono sui tavoli dei quotidiani italiani, non scuotono la routine papale. Benedetto XVI nel suo appartamento al terzo piano del Palazzo Apostolico lavora compostamente, e in ricercato isolamento, a ciò che maggiormente ama fare: scrivere. Non solo il terzo volume di Gesù di Nazaret dedicato ai Vangeli dell’infanzia (Luca e Matteo), ma anche i discorsi che settimana prossima, in apertura di Quaresima, si appresta a rivolgere al clero. “Vorrebbe anche scrivere la quarta Enciclica dedicata alla virtù teologale di cui ancora non ha parlato, la fede”, dice a Il Foglio un frequentatore assiduo dell’appartamento. “Ma non riesce a trovare il tempo”. Isolamento non significa che egli non sia preoccupato per la fuga di notizie e le sotterranee divergenze tra porporati: “Della Chiesa di Roma”, ha detto ai seminaristi della sua diocesi alludendo indirettamente alle recenti polemiche, “si parla in tutto il mondo, speriamo che si parli anche della nostra fede”. E poi l’affondo contro i media: “Non ci può essere il potere dell’apparenza, in cui alla fine conta quello che viene detto più della realtà”. Quaresima, tempo penitenziale. Per molti, anche dentro la Chiesa, è questo il canale sul quale Papa Ratzinger ha deciso di sintonizzare tutto il suo Pontificato. Dopo i ventisei anni e mezzo trionfali del “Papa missionario” (copyright Luigi Accattoli), l’era Ratzinger, Papa teologo e scrittore che, investito dalla campagna sui reati e peccati del clero, chiede penitenza ed espiazione rifuggendo dalla battaglia sul campo, quella frontale. Un esempio vistoso è di queste ore. Venerdì scorso, mentre il gotha d’Oltretevere era impegnato in un symposium internazionale alla Pontificia Università Gregoriana tutto dedicato agli “errori della Chiesa” incapace di arginare la pedofilia nel clero, dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, davanti alla Corte distrettuale del Wisconsin i denuncianti del caso “John Doe 16 vs. Holy See” annunciavano il ritiro dalla causa quando era data oramai per certa l’assoluzione piena per il Papa e per i cardinali Tarcisio Bertone e Angelo Sodano accusati di avere responsabilità per gli abusi commessi da padre Lawrence Murphy, il prete che dal 1950 al 1974 aveva lavorato in una scuola per bambini sordomuti di Milwaukee, finito sulla prima pagina del New York Times nel marzo 2010, l’annus horribilis dello scandalo della pedofilia. Nonostante il clamoroso esito della vicenda, nessuno tra le alte gerarchie vaticane osava dichiarare qualcosa in merito, a dimostrazione che, anche di fronte alla vittoria sulla faziosità di chi ha voluto portare in tribunale il Papa per crimini che non ha commesso, la parola d’ordine è ed è rimasta una: penitenza. E dunque silenzio, riserbo, ritiro. L’unico che, per doveri di ufficio, ha dovuto dire qualcosa è stato il legale della Santa Sede, l’avvocato Jeffrey Lena, il quale a Vatican Insider ha dichiarato come questa vicenda mostri “l’esistenza di un’azione congiunta a livello mondiale collegata agli abusi sessuali e diretta dal Vaticano. Su una teoria tanto datata quanto smentita è stata creata appositamente per i mass media una sequenza di eventi che ha trasformato un fatto gravissimo – la violenza sessuale perpetrata ai danni di un minore – in uno strumento di affermazioni mendaci circa presunte responsabilità della Santa Sede”. Quasi fuori tempo massimo su Avvenire è stato Gianni Cardinale a domandarsi “dove sia finita la notizia”. Cardinale accusa esplicitamente i media di “sproporzione” tra il rilievo dato al caso, nel 2010, rispetto alla sua chiusura, ma non dice nulla in merito al silenzio interno. L’esito positivo per la Chiesa del caso Murphy e la reazione remissiva delle gerarchie mostra in modo lampante uno stigma, in sostanza il marchio che Benedetto XVI ha deciso di imporre al suo Magistero, un’impronta che sembra portare la Chiesa lontana dall’era Wojtyla, un tempo che era carismatico e politico assieme. Non è soltanto questione di stile: quello di Papa Ratzinger è più sobrio, soprattutto a contatto con le masse, di quello di Papa Wojtyla. E’ anche questione di sostanza. “E’ un minimalista”, scrisse di lui nel 2005 Sandro Magister. Minimalista, è probabilmente questa l’accezione entro la quale lo stesso ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si sente descritto. Che non ha necessariamente un connotato negativo. E’, piuttosto, un dato di fatto. Disse lo stesso Benedetto XVI di sé appena eletto al soglio di Pietro: “Il Papa non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza alla parola di Dio”. “E a questo criterio”, scrisse ancora Magister, “si attiene anche nella gestualità pubblica. Di suo fa pochissimo. Vuole che i fedeli guardino all’essenziale, che non è la sua persona ma Gesù Cristo vivo e presente nei sacramenti della Chiesa”. Quello del Papa è un ritorno all’essenziale, alla Chiesa intesa come comunità di fedeli che prega e che cerca nell’intimità con Dio il senso del proprio esserci. Anche Wojtyla cercava questa intimità, ma subito la trasformava in battaglia nel confronto con la modernità. Il teologo Ratzinger, dal palazzo dell’ex Sant’Uffizio, gli dava la linea nei campi più delicati, ma poi era Giovanni Paolo II, non Ratzinger, a puntare tutto su quella che in molti definirono la “geopolitica religiosa”, un elemento cardine del suo Pontificato. Benedetto XVI è diverso: la sua è più una “teologia della storia” che una geopolitica. E’ più agostiniano che tomista. Per lui il rapporto col mondo esterno è soprattutto di tipo religioso e culturale, non di tipo politico. Scrisse nel 2008 Aspenia, la rivista trimestrale di politica internazionale dell’Aspen Institute in Italia, che a differenza di Papa Ratzinger Wojtyla aveva una precisa missione politica da compiere, una missione per la quale si spese fino a prese di posizioni estreme. Come quando chiese “interventi militari”. Dove? Ad esempio “a Timor Est, a Haiti, nell’Africa dei Grandi Laghi: in quest’ultimo caso senza essere esaudito, col conseguente incontrollato genocidio di intere popolazioni. L’espansione della libertà e della democrazia, infatti, era uno dei suoi princìpi guida”. Uscito di scena Wojtyla, l’interrogativo naturale era se il suo successore sarebbe stato in grado, e come, di mantenere il papato al centro della scena mondiale. L’interrogativo era tanto più naturale in quanto Joseph Ratzinger era uomo d’altra tempra, teologo raffinato, difficile da immaginare come epico condottiero. “E in effetti, sin da subito”, scriveva ancora Aspenia, “Benedetto XVI rifiutò di imitare il suo predecessore”. Ma per Samuel Gregg, direttore di ricerca dell’Acton Institute, c’è stato un momento nel quale il pontificato di Papa Ratzinger si è avvicinato molto a quello di Wojtyla. Dice: “Nonostante quanto scriveva fin dai primi mesi dopo l’elezione l’Economist, che tendeva a raffigurare un Pontificato alla deriva e con ‘prese di posizione pubbliche non molto brillanti’ in confronto a quello del ‘dinamico predecessore’”, è innegabile che “soprattutto a Ratisbona il Papa ha voluto civilizzare la società, dare dunque un’impronta politica al suo Magistero”. E ancora: all’inizio del suo Pontificato l’intento del Papa fu di “arrivare al cuore della corruzione dei paesi occidentali, una malattia che può essere descritta come patologia di fede e ragione. E a questo proposito, il discorso tenuto all’Università di Ratisbona nel 2006 potrebbe essere incluso tra i discorsi più importanti del XXI secolo, paragonabile al discorso tenuto ad Harvard nel 1978 da Alexander Solgenitsin sull’accuratezza nell’identificazione di alcuni demoni interni dell’occidente”. Già, ma dopo Ratisbona? La Chiesa ha perso la sua spinta offensiva? “Sì”, disse pochi mesi fa a Il Foglio il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. “E’ vero. Ma ciò accade perché la purificazione è necessaria. Se la Chiesa vuole essere una guida spirituale per la società, se la chiesa vuole avere questo ruolo come è giusto e legittimo che sia, deve confrontarsi con i suoi peccati. Perché non si può richiamare il mondo alla verità se la verità non si ha il coraggio di farla propria. Sembra di essere al tempo dei profeti dell’Antico Testamento. Le loro parole erano per il popolo come uno specchio. Il loro era un invito a guardarsi, a guardare i propri peccati e il proprio tradimento. Era Dio che attraverso i profeti chiamava la Chiesa alla purificazione, alla metànoia che significa sempre un radicale e vissuto cambiamento del modo di pensare e di agire”. Per molti questo tratto del Pontificato in corso apparteneva anche alla gestione pratica che l’allora card. Ratzinger faceva dell’ex Sant’Uffizio: durante le riunioni operative, sedeva di lato, lasciando all’allora mons. Bertone il pallino. Interveniva poco e delegava molto. Una caratteristica che ha oggi mantenuto, non senza ripercussioni sulla Curia romana, una Curia alla quale Benedetto XVI delega (con tutte le conseguenze del caso) l’esercizio del potere. Giovanni Paolo II aveva Stanislaw Dziwisz, oggi arcivescovo di Cracovia, che curava la gestione ordinaria della Santa Sede lasciandogli campo libero fuori dai confini, nei suoi innumerevoli e travolgenti viaggi. Oggi la situazione è differente. Georg Gänswein, il fedele segretario di Benedetto XVI, ha un compito diverso: “Da parte mia debbo essere presente e aiutare in modo invisibile”, disse nel giugno scorso poco dopo aver ricevuto un premio all’Università Cattolica di Milano. E ancora: “Dove non è possibile aiutare in modo invisibile devo cercare comunque d’essere discreto”. Discrezione, invisibilità, ritiro. Il tratto del Pontificato in corso è entro tali confini che sembra manifestare gran parte del proprio Dna, anche in questi giorni di fughe di notizie, lettere e documenti dal Vaticano.

Paolo Rodari, Il Foglio