Uscirà a gennaio la quarta enciclica di Benedetto XVI, ma terza del ciclo sulle virtù teologali; e infatti, proprio nell’Anno della fede, tratterà della fede. Il trittico delle virtù teologali era iniziato nel 2006 con la "Deus caritas est", e proseguito nel 2007 con la "Spe salvi". Il Papa vi ha lavorato la scorsa estate, come ha rivelato, un po’ a sorpresa, il card. Tarcisio Bertone i primi di agosto, dicendo che la principale occupazione del Papa a Castel Gandolfo era stata proprio la stesura del testo della nuova Enciclica.
Sul nome, ovviamente, non ci sono indiscrezioni, ma non è difficile ipotizzarlo all’interno delle celebrazioni volute dal Papa per i 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II. Con un precedente importante: Giovanni Paolo I negli incontri del mercoledì avrebbe voluto trattare proprio i temi delle virtù teologali, ma la sua prematura morte gli permise di affrontare solo la fede, non la speranza e la carità.
Dopo il Concilio, c’è chi si era posto la domanda: qual è la dottrina del Vaticano II sulla fede, con evidente intento critico. Papa Paolo VI non volle lasciare senza risposta questo interrogativo e, nell’Udienza di mercoledì 8 marzo 1967, disse: “Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla a ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine”.
Per non parlare della "Gaudium et spes", che al n. 57 affronta proprio il tema fede e cultura: “I cristiani, in cammino verso la Città celeste, devono ricercare e gustare le cose di lassù; questo tuttavia non diminuisce, anzi aumenta l’importanza del loro dovere di collaborare con tutti gli uomini per la costruzione di un mondo più umano. E in verità il mistero della fede cristiana offre loro eccellenti stimoli e aiuti per assolvere con maggiore impegno questo compito e specialmente per scoprire il pieno significato di quest’attività, mediante la quale la cultura umana acquista un posto importante nella vocazione integrale dell’uomo”.
Benedetto XVI nell’omelia pronunciata in occasione dell’inizio del suo Pontificato, parlava della fede come della “santa inquietudine di Cristo” che deve animare il Pastore in un tempo in cui tante persone si trovano a vivere nel deserto: “Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza”.
Così nel libro Luce del mondo, rispondendo a una domanda del giornalista Peter Seewald, Benedetto XVI afferma: “Viviamo in un’epoca nella quale è necessaria una nuova evangelizzazione; un’epoca nella quale l’unico Vangelo deve essere annunciato nella sua razionalità grande e perenne, ed insieme in quella sua potenza che supera quella razionalità”.
Già qui possiamo trovare la radice dell’Anno della fede aperto dal Papa non solo per far memoria dei 50 anni del Concilio, ma per renderlo ancora attuale e per accompagnare l’uomo “fuori dal deserto, verso il luogo della vita”.
Fabio Zavattaro, La Voce
Fabio Zavattaro, La Voce