Capitolo 2. Dopo l’ingresso a Gerusalemme si inserisce “il grande discorso escatologico di Gesù con i temi centrali della distruzione del tempio, della distruzione di Gerusalemme, del Giudizio finale e della fine del mondo”. Gesù tante volte ha voluto raccogliere i figli di Gerusalemme “come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali”: ma non hanno voluto. E’ il “libero arbitrio dei pulcini”. I Romani distruggeranno il tempio e faranno grande strage degli ebrei. “Dio lascia una misura grande – stragrande secondo la nostra impressione – di libertà al male e ai cattivi; ciononostante la storia non gli sfugge dalle mani”. Per il giudaismo, “la distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo”: con la fine dei sacrifici espiatori niente più poteva “far da contrappeso” al male crescente nel mondo. Ma con Gesù “è superata l’epoca del tempio di pietra”. “E’ iniziato qualcosa di nuovo”. “Gesù stesso ha preso il posto del tempio, è Lui il nuovo tempio”, “è la presenza del Dio vivente. In Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto”. Nel suo amore si scioglie tutto il peccato del mondo. Gesù, nel discorso escatologico, parla del tempo dei pagani, situato tra la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo: durante questo tempo “il Vangelo deve essere portato in tutto il mondo e a tutti gli uomini: solo dopo, la storia può raggiungere la sua meta”. Allora finirà anche l’ostinazione di una parte di Israele e “tutto Israele sarà salvato”. Dio vuole salvare tutti. Gesù dice: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. “La parola, quasi un nulla a confronto col potere enorme dell’immenso cosmo materiale...è più reale e più durevole che l’intero mondo materiale. E’ la realtà vera ed affidabile...Gli elementi cosmici passano; la parola di Gesù è il vero ‘firmamento’, sotto il quale l’uomo può stare e restare”.
Capitolo 3. Con la lavanda dei piedi Gesù si spoglia del suo splendore divino per purificarci dalla nostra sporcizia e “renderci capaci di partecipare al banchetto nuziale di Dio”. Attua “una svolta radicale” nella storia della religione: davanti a Dio “non sono azioni rituali che purificano”, ma è “la fede che purifica il cuore”. Secondo l’esegesi liberale “Gesù avrebbe sostituito la concezione rituale della purità con quella morale”, ma “allora il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale”, ridotto all’ “estremo sforzo morale” di amare gli altri fino a sacrificare la propria vita. “Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento”. La novità del Vangelo “non può consistere nell’elevatezza della prestazione morale”. “La nuova Legge è la grazia dello Spirito Santo, non una nuova norma, ma l’interiorità nuova donata dallo stesso Spirito di Dio”. Solo se ci lasciamo ripetutamente lavare, ‘rendere puri’ dal Signore stesso, possiamo imparare a fare insieme con Lui ciò che Egli ha fatto”. “Dobbiamo lasciarci immergere nella misericordia del Signore; allora anche il nostro cuore ‘cuore’ troverà la via giusta”. Il comandamento nuovo dell’amore “non è semplicemente un’esigenza nuova e superiore: esso è legato alla novità di Gesù Cristo – al crescente essere immersi in Lui”. “La purezza è un dono”, come l’essere cristiani è un dono, che poi “si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono”. Pietro e Giuda sono due modi diversi di reagire a questo dono. Entrambi lo accolgono, ma poi uno rinnega, l’altro tradisce. Pietro, pentitosi, crede nel perdono. Anche Giuda si pente, ma non “riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione...vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento”. “In Giuda incontriamo il pericolo che pervade tutti i tempi”, il pericolo cioè che anche chi è stato una volta illuminato, “attraverso una serie di forme apparentemente minute di infedeltà, decada spiritualmente e così alla fine, uscendo dalla luce, entri nella notte e non sia più capace di conversione”. Inoltre, in Giuda che lo tradisce, Gesù sperimenta “l’incomprensione, l’infedeltà fino all’interno del cerchio più intimo degli amici”. “La rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono ‘il suo pane’ e lo tradiscono”. Come diceva Pascal “la sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo”. “Gesù in quell’ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall’essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia”.
Capitolo 4. La preghiera sacerdotale di Gesù “è comprensibile solo sullo sfondo della liturgia della festa giudaica dell’Espiazione (Yom kippùr)”. L’innalzamento di Gesù sulla Croce costituisce “il giorno dell’Espiazione del mondo, in cui l’intera storia del mondo, contro tutta la colpa umana e tutte le sue distruzioni, trova il suo senso”: quello di riconciliarsi con Dio. Il non essere riconciliati con Dio, “con il Dio silenzioso, misterioso, apparentemente assente e tuttavia onnipresente, costituisce il problema essenziale di tutta la storia del mondo”. La missione di Gesù è universale: “Non riguarda soltanto un circolo limitato di eletti; il suo obiettivo è il cosmo – il mondo nella sua totalità. Mediante i discepoli e la loro missione il mondo intero nel suo insieme deve essere strappato dalla sua alienazione, deve ritrovare l’unità con Dio”. La sua missione è che “l’uomo, nel diventare una cosa sola con Dio, torni ad essere totalmente se stesso. Questa trasformazione, però, ha il prezzo della croce e per i testimoni di Cristo quello della disponibilità al martirio”.
Capitolo 5. Il Papa affronta la questione della diversa datazione dell’Ultima Cena nei Sinottici e in Giovanni. In proposito parla di “groviglio di ipotesi tra loro contrastanti”. Sottolinea che “una ricerca storica può condurre sempre solo fino ad un alto grado di probabilità, mai ad una certezza ultima...Se la certezza della fede si basasse esclusivamente su un accertamento storico-scientifico, essa rimarrebbe sempre rivedibile”. “L’ultima certezza, sulla quale fondiamo l’intera nostra esistenza, ci è donata dalla fede – dall’umile credere insieme con la Chiesa di tutti i secoli, guidata dallo Spirito Santo”. I Sinottici parlano di una cena pasquale. Il giorno dopo, festa della Pasqua, Gesù viene processato e crocifisso. In Giovanni, l’Ultima Cena avviene nell'antivigilia della Pasqua e Gesù viene crocifisso non nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. “Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali”: Gesù è “il vero Agnello”. Il Papa ritiene la cronologia giovannea più probabile. Cosa è stata allora, si chiede il Papa, l’Ultima Cena? Con Meier, spiega che Gesù, nella consapevolezza che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua invitò i discepoli “ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua”. Il Papa affronta quindi il concetto di espiazione che per certa teologia moderna sarebbe inconcepibile e in contrasto “con un’immagine pura di Dio”. “Dio – afferma – non può semplicemente ignorare tutta la disobbedienza degli uomini, tutto il male della storia, non può trattarlo come cosa irrilevante ed insignificante...L’ingiustizia, il male...deve essere smaltito, vinto. Solo questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà ‘incondizionata’ di Dio, una bontà che non può mai essere in contraddizione con la verità e la connessa giustizia”. “A tutta la marea sporca del male si oppone l’obbedienza del Figlio, nel quale Dio stesso ha sofferto e la cui obbedienza pertanto è sempre infinitamente più grande della massa crescente del male”. Il Papa sottolinea quindi che “ciò che la Chiesa celebra nella Messa non è l’ultima cena, ma ciò che il Signore, durante l’ultima cena, ha istituito ed affidato alla Chiesa: la memoria della sua morte sacrificale”. E poiché il dono di Gesù è radicato nella risurrezione, la celebrazione del Sacramento doveva svolgersi nel Giorno del Signore, la domenica. Già nel periodo degli apostoli “l’Eucaristia veniva celebrata come incontro con il Risorto”. “Un arcaismo, che volesse tornare a prima della risurrezione e della sua dinamica ed imitare soltanto l’ultima cena, non corrisponderebbe affatto alla natura del dono che il Signore ha lasciato ai discepoli”.
Radio Vaticana, TMNews