giovedì 19 gennaio 2012

Quegli ecclesiastici in carriera con l’hobby dello sgambetto a mezzo stampa, che negano la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osservano

All’ombra delle grandi querce, si dice, non cresce l’erba. Se la quercia però è un Papa, anche i proverbi possono traballare: è stato il card. Ratzinger a crescere all’ombra di Papa Wojtyla oppure, per i ventiquattro su ventisette anni del suo Pontificato, Giovanni Paolo II è potuto crescere liberamente grazie "all’umile lavoratore", come Benedetto XVI si è definito il giorno della sua elezione, che zappettava tutto intorno alle sue radici? Di "fallimento Ratzinger", si è iniziato a parlare già dal tardo pomeriggio del 10 settembre del 2006, quando le informazioni sull’omelia della Messa celebrata al mattino dal Papa alla Neue Messe Stadt vennero reinterpretate in senso polemico, da una penna italiana in vena di favori. La stupida trovata, uscita dall’ambito paracattolico, coincideva con il debutto di padre Federico Lombardi come direttore della Sala Stampa vaticana: qualcuno pensava di doverlo gratificare con uno sgambetto. E a sfogliare i ritagli che hanno accompagnato le nomine apicali operate da Benedetto XVI, risulta come il giochino sia continuano senza interruzioni. Così, negli archivi dei giornalisti materiale e titoli si sono depositati tanto da far parlare di "fine", "discredito", "fallimento" della Chiesa, del Vaticano, del Papa e dell’intero mondo cattolico. Persino le recenti nomine cardinalizie sono entrate nella cronaca nostrana, con il solito provincialismo “de noantri”, quello che fa finta di riferirsi a fonti oggettive (virgolettando anonimamente "un cardinale", "i sacri palazzi", "un monsignore di curia") per riversare sulle pagine di quotidiani importanti le pene del cuore del solito malato (la definizione è di Paolo VI) di "porporite" cronica. Se il card. Angelo Sodano ci mise una decina d’anni a guadagnarsi il titolo (su L’Espresso) di "peggior Segretario di Stato vaticano dell’ultimo secolo", il Segretario di Stato di Benedetto XVI, il card. Tarcisio Bertone, lo ha ottenuto in meno di due anni, dalla sua visita a Cuba nel febbraio del 2008, quando venne ampiamente sbeffeggiato per la sua velleità di far accompagnare dalla Chiesa la transizione cubana che, soprattutto allora, si presentava ricca di incognite. Che poi questa velleità si sia trasformata nel lento, faticoso ma pacifico percorso che il mondo sta osservando, pare non interessare molto le gazzette nostrane. Così come insignificante viene considerato il disegno tracciato dagli uomini scelti da Papa Ratzinger che sull’orizzonte di un’Europa piena di nubi ha invece dotato i cattolici che vogliono dedicarsi alla politica di una piattaforma riformista, mediamente espressa con un linguaggio più radicale di quello caro alla sinistra borghesizzante del nostro Continente. Una piattaforma che, se e quando le democrazie parlamentari europee ritroveranno stimoli e ideali, aiuterà a riportare il dialogo sociale sulle grandi parole vilipese dal capitalismo finanziario moderno: lavoro, coraggio imprenditoriale, fantasia politica, compattezza sociale. Senza parlare, poi, dell’importanza che sul lungo termine avrà, nella riscrittura delle regole che stanno cambiando l'Europa e la sua moneta unica, la visita di Stato di settembre del Papa al Bundestag. E non è certo un “fallimento” quello di Joseph Ratzinger e dei suoi, in un campo che Emma Fattorini, chiosando il discorso del 9 gennaio al Corpo diplomatico, ha visto Benedetto XVI esprimere una piattaforma politica e sociale che vede, "nei Paesi più oppressi, quelli nei quali le religioni sono causa principale della soppressione dei diritti, sono proprio le donne a convertirsi in maggior numero al cristianesimo perche trovano li, nel suo senso di eguaglianza e di giustizia, una superiore occasione di affrancamento e di liberazione". Questo seme di "evangelizzazione del femminile tramite il femminile", è stato un sogno che lo stesso Giovanni Paolo II con la forza dei suoi gesti ha inseguito, ma non conseguito. Anche se non direttamente riferito alle vicende ecclesiali, l’ultimo libro di Ilvo Diamanti ("Gramsci, Manzoni e mia suocera", Il Mulino) dovrebbe in Vaticano, essere indicato come utile lettura per gli ecclesiastici in carriera, quelli con l’hobby dello sgambetto a mezzo stampa, abituati dalla nomina di Benedetto XVI in poi, per usare una metafora di Diamanti, "a negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall'alto e di lontano". Ne consegue, come ulteriore motivo di apprezzamento per questo momento della Chiesa, la enorme capacità degli uomini scelti da Papa Benedetto di non reagire alle infinite contumelie. "Come ha fatto il cattolicesimo a scegliere come Papa un cristiano", si chiedeva Hannah Arendt al momento dell’elezione di Giovani XXIII. Qualcuno si chiederà: come ha fatto Joseph Ratzinger, in una generazione di chierici così combinata, a scegliere come collaboratori preti così bravi?

Filippo Di Giacomo, L'Unità