Venerdì sera, al termine della prima giornata del Concistoro, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, avrebbe chiesto udienza privata a Benedetto XVI. Questi gliel’avrebbe accordata. E in quella circostanza Romeo avrebbe spiegato i motivi del suo viaggio in Cina dello scorso novembre, e quello che ha realmente detto alle autorità cinesi che lo avevano invitato. Un chiarimento considerato necessario dal diretto interessato. Che, tra l’altro, ha fatto notare di avere rapporti più che amichevoli con il card. Tarcisio Bertone. In fondo, il Segretario di Stato è stato in Sicilia lo scorso 5 febbraio, a Catania, per la festa di Sant’Agata. Anche Romeo era presente. E quanti li hanno visti insieme raccontano che “andavano d’accordo e in armonia”. Sembra ormai passata in secondo piano l’operazione che Romeo mise in atto nel 2006. Da nunzio in Italia, scrisse una lettera a tutti i vescovi promuovendo una consultazione per proporre il successore del card. Camillo Ruini come presidente della Conferenza Episcopale Italiana. La manovra fallì: troppo forte la volontà di Benedetto XVI di confermare ancora per un po’ Ruini, troppo scoperta l’operazione. Romeo fu inviato a Palermo, e dovette saltare un turno per ottenere la berretta rossa di cardinale. Il suo ispiratore, Angelo Sodano, Segretario di Stato vaticano, fu invece pensionato. E, per evitare ulteriori pressioni, anche di fretta: prima dell’estate, fu annunciato che a settembre a prendere il suo posto sarebbe stato il card. Bertone. In Sicilia, Romeo è amato. Ha organizzato la visita del Papa a Palermo, un successo, nonostante le polemiche che sono state fatte riguardo i costi della visita. E il giorno dopo la diffusione del report che lo chiamava in causa per aver rivelato un “complotto mortale” ai danni di Benedetto XVI in Cina, si è celebrata la Messa per i cinque anni della sua ordinazione episcopale a Palermo. La Chiesa era gremita. La Sicilia è un terreno di particolare interesse per i cinesi. Non ci sono solo le infrastrutture, la Cina è molto interessata a un eventuale investimento sul Ponte sullo Stretto, c’è anche un sostrato culturale che da sempre lega la Cina alla Sicilia. Il legame ha un nome e un cognome: Prospero Intorcetta. Non è un businessman, ma è un gesuita. Non è nemmeno un gesuita contemporaneo: nato a Platia (l’odierna Piazza Armerina) nel 1626, accolto a sedici anni nel Collegio Gesuita di Catania, andò missionario in Cina nel 1659, insieme con il gesuita francese Philippe Couplet, e operò nella missione di Jianchang (l’odierna Nanchang) nella regione dello Jiangxi. Appassionato studioso di storia e filosofia cinese, fu il primo a tradurre Confucio in latino. I cinesi non hanno dimenticato: Confucio resta il loro nume ispiratore, Mao è semplicemente un passaggio nella loro storia. C’è, a Piazza Armerina, una Fondazione dedicata a Prospero Intercetta. I cinesi mantengono relazioni, anche grazie ad imprenditori siciliani che hanno interessi nella terra di Pechino, e di quando in quando invitano i vescovi e sacerdoti, nell’ambito di queste buone relazioni culturali, ad andare in Cina. C’è chi non ritiene opportuno andarci, per evitare di essere strumentalizzato. E chi invece ritiene più opportuno accettare l’invito. Come ha fatto Romeo lo scorso novembre. Ovviamente, non si può sapere esattamente cosa, a novembre del 2011, Romeo abbia detto ai funzionari cinesi, se si sia trattato di una banale considerazione sull’età del Pontefice o se addirittura non abbia detto nulla. Ma un paio di mesi dopo, Benedetto XVI annuncia il Concistoro. E, tra i nomi annunciati come nuovi cardinali, c’è anche John Tong Hon, arcivescovo di Hong Kong. I rapporti tra il Vaticano e Pechino sono diventati ancora più tesi la scorsa estate, quando il governo di Pechino ha proceduto a sette ordinazioni illecite. Il Vaticano fece protesta. La tensione divenne alta. E si decise di mantenere una linea ferma, come è sempre stata la linea di Benedetto XVI, poco incline alla realpolitik della scuola di Casaroli e Sodano, e più attento invece a puntualizzare la verità, ma allo stesso tempo di basso profilo. Prova ne è il fatto che di Cina Benedetto XVI non ha parlato nel consueto discorso di inizio anno al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, nonostante ci siano ancora diversi sacerdoti e due vescovi imprigionati dai cinesi. Tong ha seguito da sempre quel tipo di linea diplomatica. Fermo nei principi, attento al valore non negoziabile della libertà religiosa, nella sua carriera Tong ha mescolato la fermezza con una buona dose di realpolitik. Una reputazione che ha cominciato a costruire nel 1985, quando, a Shanghai, Jin Luxian fu messo sotto pressione per accettare una ordinazione illecita a vescovo ausiliare di Shanghai da parte delle autorità cinesi. In pochi dentro e fuori Shanghai credevano che sarebbe stato possibile per Jin rimanere cattolico se avesse accettato l’ordinazione. Ma allo stesso tempo, Jin temeva che se non avesse accettato, non solo il seminario di Shanghai sarebbe stato messo a rischio, ma il suo rifiuto avrebbe aperto a qualcuno più accomodante nei confronti del governo. Così accettò, sperando in un appoggio da Roma. E l’appoggio arrivò: John Tong (allora religioso) e Laurence Murphy, quest’ultimo intermediare informale e consulente del Vaticano negli Affari Cinesi, parteciparono all’ordinazione, con il tacito consenso di Giovanni Paolo II. A una settimana dal Concistoro, viene diffuso questo report dei cinesi che parla di un complotto di morte contro il Papa. L’interesse a rendere visibile e drammatizzare lo scontro interno alla Curia è evidente. Per la Cina, potrebbe rappresentare, dice un osservatore, un modo per protestare contro la nomina di Tong. In questa sua forma di resistenza, Pechino ha trovato alleati insospettabili: Darìo Castrillon Hoyos, già presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei privato di ogni incarico dopo che era scoppiato l’affaire Williamson (il vescovo lefebvriano che si era reso protagonista di diverse dichiarazioni anti-semite), ansioso di mostrare come sia la Curia stessa ad essere una “babilonia”; gli stessi membri della Società San Pio X, che non vogliono accettare il preambolo dottrinale per riconciliarsi con la Chiesa Cattolica (preambolo in cui è fatto chiaro che il Concilio Vaticano II non si tocca) e che hanno tutto l’interesse a giustificare la loro posizione; e parti di Curia ereditate dalla precedente gestione, o ancora con qualche influenza, che magari già pensano a piazzare dei loro uomini in vista del prossimo conclave.
Andrea Gargliarducci, Korazym.org