Vorrei centrare proprio sulla Parola queste poche note a margine del libro del professor Ratzinger. Mi permetto di chiamarlo così perché in queste pagine agisce non da capo di una comunità di credenti, ma da studioso che opera con strumenti e razionali e logici, da storico, e prima ancora da filologo. Un’attività, la filologia, che presuppone l’accertamento e la restaurazione di un ordine, di un percorso, la ricomposizione di pezzi sparsi in un disegno organico. Attività che, al pari delle scienze esatte, non è affatto fredda, come comunemente si ritiene, o meglio come ritiene chi in realtà non sa come funzionino. Richiede sì strumenti freddi, come sono freddi e affilati gli strumenti con cui operano chirurghi o i fisici, addirittura i cuochi. Tuttavia a maneggiarli sono persone agitate, è il caso di dirlo, da uno pneuma, da forti tensioni conoscitive, creative. C’è un pensiero bellissimo, nel libro del professor Ratzinger, che ogni scrittore, ma anche ogni lettore vero, è pronto a sottoscrivere: "La parola è più reale e più durevole dell’intero mondo materiale". Un pensiero che si rifà a una famosa affermazione dell’uomo di Nazaret: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno mai". Su un più modesto piano letterario, questa è anche l’ambizione un po’ ingenua, inconfessata e inconfessabile, di ogni scrittore. Di parole si compongono i documenti che il professor Ratzinger procede a vagliare con acribia scientifica per dimostrare che il Gesù storico e il Gesù della fede sono la stessa entità, e che i Vangeli rappresentano una testimonianza affidabile, su cui lo storico può lavorare. Ma proprio per arrivare a questa constatazione de facto, occorre che ogni parola sia verificata, analizzata al microscopio elettronico, comparata con eventuali sinonimi, immersa nel contesto del suo tempo ma anche disvelata nel patrimonio di storie che si porta dietro. Ogni parola è un mondo miniaturizzato, al modo in cui milioni di informazioni digitalizzate possono essere stivate nella capocchia di un cheap di silicio. Per esempio, la parola “Adamo” in ebraico contiene notoriamente in sé il concetto di “terra rossa”, dunque di “nato dalla terra”, e rimanda alla creta di cui siamo impastati. Mi ha molto colpito la pacatezza, vorrei l’umiltà con cui il professor Ratzinger ha condotto la sua indagine istruttoria. Carico d’anni, di studi e di letture, non approfitta mai della sua auctoritas, del ruolo istituzionale che ricopre. Egli ci appare piuttosto come un ricercatore che nella quiete di una qualche remota biblioteca universitaria conduce le sue ricerche, confrontando documenti, incrociando prove, cercando di dare solido equilibrio alle tesi che argomenta. Tratta gli studiosi che sostengono tesi magari opposte e contrarie con un rispetto raro, in un dibattito scientifico, anche quando quelle tesi risultano poco fondate persino ai non addetti ai lavori, tra i quali rientro. Non nasconde, occulta o rimuove quelle tesi, anzi, le va a scovare una per una, ma senza prenderle per le orecchie, come si può fare con altrettanti scolari discoli, piuttosto con una delicatezza quasi fraterna, una levitas francescana. Dolce è il tono della voce che parla ai lupi illuministi. Questa dolcezza dà più forza alla sua fermezza. Lo scrittore francese Philippe Sollers ha scritto su Le Monde cose piuttosto originali a proposito di Gesù di Nazaret. Lo ha definito uno straordinario polar metafisico. Ora, polar nel francese famigliare sta per “romanzo poliziesco”, è una crasi tra “poliziesco” e noir. Certo, è un’etichetta un po’ forte, quasi irriverente, ma immagino che l’autore l’abbia accolta con un sorriso. Da scrittore, Sollers intendeva riconoscere all’autore del polar un vero talento narrativo, e occorre dargli ragione. Più che di talento narrativo, poichè questa non è una fiction, parlerei di capacità espositiva, di eleganza di scrittura (un’eleganza che non si compiace mai dei suoi effetti). Non fosse che viene da tutt’altri percorsi, si direbbe quasi che il professor Ratzinger sia apparentabile all’illustre tradizione del saggismo italiano, forse anche superiore a quella letteraria, e che vanta campioni capaci di unire alla profondità del pensiero alte qualità di scrittura: penso a Benedetto Croce, a Luigi Einaudi, a Roberto Longhi, a Giovanni Macchia. Gesù di Nazaret, precisa ancora Sollers a beneficio del grande pubblico, è il contrario di un film, perché è tutto interiorizzato. L’autore lavora sull’esegesi, sull’interpretazione. Certo, c’è il contesto politico dell’epoca, ma egli smonta le tesi che descrivono l’esecuzione di Gesù per mano del Gauleiter di Galilea come un episodio della guerriglia di resistenza a una brutale forza d’occupazione, lotta condotta come è noto dagli zeloti. Allo stesso modo affronta l’accusa di deicidio rivolta agli ebrei, e tuttavia va oltre il semplice intento storiografico. Qui mi piace citare il card. Ravasi, quando osserva che il proposito di definire il Gesù “reale” è molto più ambizioso e impegnativo del definire il semplice Gesù storico. Perché, scrive, per ogni personaggio e persino per ciascuno di noi, ciò che è documentabile storiograficamente in modo ineccepibile è molto meno di quanto ognuno di noi è in realtà. Su questa via, l’attenzione dell’autore si concentra sulla polarità che si crea tra parole che appartengono a una tradizione millenaria e l’uso innovativo e addirittura rivoluzionario, è il caso di dirlo, che Gesù di Nazaret ne fa. La rivoluzione che Gesù porta non è collettiva, non è un moto di piazza, non è delegata ad alcuno: è quella che ognuno deve compiere in solitudine dentro se stesso, attuando comportamenti radicalmente nuovi. È una rivoluzione condotta nel segno della Parola. Quella che Gesù istituisce è una discontinuità forte, addirittura temeraria, che non soltanto abolisce i vecchi codici della ritorsione e della vendetta, la pratica dell’occhio per occhio, del rispondere colpo su colpo, insomma il codice delle faide tribali, sostituendolo con l’amore del prossimo e addirittura dei propri nemici, ma mette l’uomo al centro di quello che oggi chiameremmo il suo progetto. L’uomo viene sottratto ai suoi doveri meccanici di sacrificante che offre i capi migliori del suo gregge a un dio immaginato come una sorta di “megapossidente” favolosamente ricco, e viene invece restituito alla missione di rigenerare se stesso, di trasformare l’amore per Dio in amore per l’uomo. Luogo di culto non sarà solo il tempio, nemmeno il tempio per eccellenza, quello di Gerusalemme. Ogni uomo è chiamato a diventare esso stesso un tempio, il tempio della propri elevazione. Proprio perché il professor Ratzinger maneggia a perfezione gli strumenti della filologia, è in grado di attribuire alle parole uscite dai test del suo laboratorio valenze metaforiche e figurative. Si veda ad esempio l’intuizione, da vero scrittore, che lo porta a dire che “vita eterna” non significa (come il lettore d’oggi è portato a pensare) la vita che viene dopo la morte, mentre la vita presente è giustamente passeggera provvisoria. Per lui “vita eterna” è la stessa vita che siamo chiamati a vivere qui e ora, e non si conclude con la morte fisica, se siamo in grado di viverla con la pienezza che ci viene richiesta, se sappiamo attivare in noi la palingenesi che ci immetta in una dimensione che va oltre i semplici limiti temporali. Mirare in vita all’eternità del bene. La vera vittoria sulla morte, quella che abbatte i muri del tempo, è una vita degna e piena, ricca di valori umani, che continua in chi li eredita. Non diciamo infatti che le persone care che ci hanno lasciato continuano a vivere in noi? Si veda similmente come l’autore sia in grado, quando parla di risurrezione, e proprio per le sue capacità critiche e filologiche, di operare una sottile e acuta distinzione tra quello che nei testi evangelici è professione di fede, formule precise che impongono fedeltà alla comunità dei credenti, e quello che sono invece le modalità narrative delle apparizioni del Risorto che, egli osserva, appartengono a varie tradizioni, espressive, possiamo dire, distribuite tra Gerusalemme e la Galilea. È proprio questa varietà di canoni narrativi a spiegare la diversità dei racconti della risurrezione nei quattro vangeli. All’interno delle quali il professor Ratzinger ci offre delle vere e proprie perle, come quando, ad esempio, analizza l’uso metaforico della parola “sale” in Marco e nel Luca degli Atti degli Apostoli. La parola usata da Luca è Sunalizòmenos, che significa letteralmente “mangiando con loro del sale”, e rimanda alla consuetudine di spartire nei banchetti pane e sale anche come cemento simbolico di solide alleanze comunitarie. Le pratiche di conservazione dei beni materiali di fronte alla corruzione e alla putrefazione che li minacciano rimandano così alla conservazione di beni immateriali, quali il patto di fedeltà che unisce una collettività. Siamo immersi nel buio di una lunga notte, il Demonio fa floridi affari e non patisce recessioni. La stessa Chiesa, come scrive Papa Benedetto, col vento contrario della storia naviga attraverso l’oceano agitato del tempo, e spesso si ha l’impressione che debba affondare. Eppure, come scrive Sollers, ci conforta pensare che in un palazzo di Roma una piccola luce resti accesa a lungo, la notte, e che un anziano studioso, bianco d’abito e di capelli, continui pazientemente a lavorare con la matita al suo romanzo poliziesco, insieme fisico e metafisico.
Ernesto Ferrero, L'Osservatore Romano