di Olegario González de Cardedal
Negli ultimi decenni, ogni qualvolta si sono tenuti convegni sul cristianesimo tra filosofi o scienziati da un lato e teologi dall’altro, i primi hanno sempre voluto avere come interlocutore Joseph Ratzinger, e non altri uomini di Chiesa più liberali o esponenti dell’ultima moda teologica. Sapevano che con lui avevano dinanzi una persona che prendeva sul serio i rigidi articoli del Credo cristiano. Nel cristianesimo ci sono tre o quattro assunti che lo fanno consistere, e senza i quali smette di esistere. Devono essere presentati ai non cristiani con delicatezza, ma senza reticenza. Sarebbe un tradimento offrire loro solo quegli aspetti della vita cristiana che possono risultare gradevoli. Non si tratta di proporre solamente il fatto isolato della croce, che allora sarebbe insopportabile; ma neppure di mantenere il silenzio su di essa e su quegli articoli del Credo che contrastano con la mentalità dominante. Se è vero che la religione è una vocale e la storia una consonante, e unendole si formano le sillabe, potremmo dire che, unendo i fatti e le esperienze originarie attorno a Gesù con l’esperienza e la speranza di ogni generazione, otterremmo quella consonanza sintattica che è la fede cristiana. Consonanza di testimonianza e di ragione, d’intelligenza e di libertà, di amore e di speranza. È stato da poco pubblicato il libro di Benedetto XVI "L’infanzia di Gesù", ultimo volume della sua trilogia su Gesù Cristo. T. S. Eliot inizia e chiude il secondo dei suoi "Quattro quartetti" con un’affermazione che incontriamo già nei presocratici e nel Nuovo Testamento: "Nel mio inizio, sta la mia fine. Nella mia fine sta il mio inizio". Ratzinger ha chiuso il secondo volume della sua opera parlando della fine: la resurrezione. Gli evangelisti hanno descritto l’inizio (infanzia) di Gesù a partire dalla sua fine (resurrezione). Quando si resero conto che colui che gli uomini avevano crocifisso, Dio lo aveva fatto risorgere, non poterono non interrogarsi sul senso di tutto ciò che avevano vissuto con Gesù e soprattutto si chiesero chi era e da dove veniva, visto che Dio aveva agito così con lui. Comincia allora un processo di rilettura del vissuto, fino a giungere alla nascita stessa di Gesù. Una convinzione anima tutto il processo: l’unità personale del soggetto. Dio non ha incastonato la sua azione di punto in bianco e senza avvisare, in qualcuno non qualificato per tale missione e senza alcun rapporto speciale con Lui. Colui che è risorto è lo stesso che è morto sulla croce, colui che ha predicato il Regno è lo stesso che è nato a Betlemme. E concludono: colui che Dio ha fatto risorgere è suo Figlio. Colui che è nato a Betlemme è lo stesso Figlio incarnato. I Vangeli nascono da tre fonti senza le quali non sono intellegibili: la memoria viva delle parole e degli atti di Gesù, l’esperienza della Chiesa che nasce e cresce, la rilettura dell’Antico Testamento fatta a partire dalla convinzione che, in quanto annuncio anticipato del Messia promesso da Dio, si era compiuto in Cristo. Non sono biografie nel senso scientifico moderno del termine. Presuppongono i fatti raccontati, poiché c’erano ancora testimoni che potevano accreditare come vero o smentire ciò che gli evangelisti e Paolo narravano. Scrivono non sulla base del sospetto bensì della fiducia, con la gioia di sapere che hanno tra le loro mani, vasi di argilla, un tesoro che offrono agli altri. Questi tre elementi devono essere tenuti presenti al momento di leggere i Vangeli e di utilizzarli come fonte per la conoscenza di Gesù. Con questi criteri Ratzinger ha scritto il suo libro. Ma è importante dedicare un libro allo studio dell’infanzia di Gesù? Non è l’infanzia un mero passaggio verso la gioventù e la maturità? Ha senso parlare dell’infanzia del Figlio eterno di Dio, facendogli condividere il nostro farci carne nel grembo di una donna, la nostra nascita e i nostri primi passi? I racconti del Natale sono qualcosa di più di semplici “racconti natalizi”? Scrittori come Dickens e filosofi come Schleiermacher non li hanno demistificati per sempre? Ridurli a mito o a mera poesia è l’eterna tentazione dell’uomo dinanzi alla condiscendenza divina. Hanno suscitato tanta poesia e tanta musica perché sono molto più di questo. Noi non osiamo credere che Dio, essendo veramente buono, voglia condividere il nostro destino, che sia l’Emmanuele. Il Dio cristiano non è semplicemente il dio dei deisti, motore immobile od orologiaio che una volta per tutte ha caricato il mondo. Quello che affermano i Vangeli, e Joseph Ratzinger ripete, è che Dio si è inserito in un mondo che è sua creazione e agisce per mezzo di essa, collaborando con l’uomo e facendosi uomo. La dignità di un carattere non si realizza opponendosi a Dio creatore a partire da un’ipotetica autonomia, ma servendolo per portare a termine il suo disegno salvifico. È questo il senso del miracolo. Dio s’inserisce nel mondo per aiutare l’uomo. Così l’incarnazione rivela essere nuova creazione dello Spirito, facendo nascere l’umanità di Gesù nel grembo di Maria, nello stesso modo in cui nella Genesi vediamo nascere tutto dal nulla attraverso la forza dello Spirito. E anche la resurrezione si svela essere l’anticipazione della ricreazione gloriosa della fine nel cuore della storia. Concepimento verginale, incarnazione e resurrezione realizzano così quel miracolo originario che è la creazione: Dio che si dona nel suo amore e nella sua libertà creatrice fino a farsi carne. Osare parlare in modo assolutamente serio dell’infanzia di Gesù significa osare parlare in modo assolutamente serio di Dio fatto uomo, dell’uomo bambino nella sua vulnerabilità e della nuova forma di essere persona basata su questa nuova creazione in Cristo. Non nacquero dall’ingenuità l’"Oratorio di Natale" di Bach (1723), i "Venti sguardi su Gesù Bambino" di Messiaen (1944) e neppure "L’infanzia di Cristo" di Berlioz (1854). A quest’ultimo noi spagnoli dobbiamo essere particolarmente grati. Ascoltandolo, visse ciò che chiama "il fatto straordinario", la sua conversione, García Morente, anima della Facoltà di Filosofia nella nuova Città universitaria di Madrid. "Ascoltavo un brano di Berlioz - scrive il filosofo - intitolato L’infanzia di Gesù. Ebbe un effetto fulminante sulla mia anima. 'Questo è Dio, questo è il vero Dio, Dio vivo; questa è la Provvidenza viva', dicevo a me stesso. 'Questo è Dio che ascolta gli uomini, che vive con gli uomini, che soffre con essi, dà loro coraggio e porta loro la salvezza'".
L'Osservatore Romano