Era in procinto di partire per Cipro, incontro a Benedetto XVI. Ma è stato ucciso alla vigilia, giovedì 3 giugno, festa del Corpus Domini. Il suo sacrificio è la faccia più vera della Turchia, così lontana dalla cartolina da sogno dipinta dal ministro degli esteri di Ankara nell’intervento citato due giorni fa in questo blog, due post più sotto. Luigi Padovese (foto), 63 anni, milanese, francescano cappuccino, amò e percorse passo passo la Turchia dapprima come ricercatore e docente di patrologia, nonché preside della Pontificia Università Antonianum di Roma. In tale veste promosse più di venti simposi di studio su San Paolo, a Tarso, e su San Giovanni, a Efeso. Dal novembre 2004 era vescovo, vicario apostolico per l’Anatolia, con sede a Iskendurun. Era presidente della Conferenza Episcopale. La sua lettura della situazione politica, culturale e religiosa della Turchia era molto realistica. L’agenzia MissiOnLine del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano ha rimesso in rete dopo la sua uccisione una conferenza da lui tenuta nel 2007, che illumina sul dramma che vivono i cristiani in quel paese. Nella parte finale, mons. Padovese sintetizzava così – “per evitare facili irenismi” – l’abisso che separa la visione cristiana di Dio da quella musulmana: “Grande è la distanza che separa le due religioni. Occorre anzitutto sapere che l’islam si considera la rivelazione ultima, più completa e più razionale. Ne consegue che quanti non la seguono sono su un piano di netta inferiorità; diventare cristiano, per un musulmano, significa regredire a uno stato inferiore. Stando così le cose, richiedere la reciprocità in rapporto alla libertà religiosa è un’utopia. La potrà richiedere un islamico in un paese cristiano, ma non l’inverso. Concretamente la libertà di coscienza non esiste nell’islam e l’esercizio delle altre religioni non è libero, bensì tollerato. “Per ebrei e cristiani Dio ha creato l’uomo ‘a sua immagine e somiglianza’. Per l’islam ciò appare un’assurdità, perché contrasta con la trascendenza assoluta di Dio. In effetti, questo versetto della Genesi non compare nel Corano, che pure riporta l’episodio biblico della creazione. La ragione è che Dio non può uscire dal suo isolamento. Il confine tra Dio e l’uomo rimane invalicabile con la conseguenza che il primo è troppo trascendente per poter amare ed essere amato. Soltanto i mistici sufi – presumibilmente per influenze cristiane – hanno messo l’accento sull’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. “Un’altra conseguenza riguarda il concetto di dignità dell’uomo, che per cristiani ed ebrei si fonda a partire da questa stessa dottrina biblica di essere a immagine e somiglianza di Dio. Tanto per esemplificare, osserviamo come la lotta per il riconoscimento della dignità e libertà umana abbia trovato in ambito cristiano motivazioni e impulsi profondi a partire dalla ‘parentela’ intrecciata da Dio con l’uomo (maschio e femmina!) e restaurata in Cristo. Le teologie che intendono liberare l’uomo dalle diverse schiavitù dei nostri giorni non trovano forse il loro fondamento ultimo nel testo della Genesi (1, 26): ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza’? Non così per l’islam, che trae tutta la sua normativa dal Corano. Proprio considerando questa vicinanza tra Dio e l’uomo, mediata poi da Cristo, si capisce come l’etica cristiana primitiva si configura più come risposta nella fede a questo Dio inteso come partner che non come adeguamento a una norma. La cosa risulta tanto più chiara se si osserva che tra i 99 titoli riservati a Dio nell’islam manca quello di Padre e, dunque, manca un principio ispiratore della morale personalista cristiana”. Sicuramente, il vescovo Padovese non ebbe difficoltà a capire e a condividere in pieno la lezione di Ratisbona di Papa Joseph Ratzinger. Il 5 febbraio scorso, quarto anniversario dell’uccisione a Trebisonda di don Andrea Santoro, aveva detto alla Radio Vaticana: “Don Andrea fu ucciso come simbolo, in quanto sacerdote cattolico. Non è stata uccisa soltanto la persona, ma si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava: ricordarlo in questo momento, all’interno dell’anno dedicato ai sacerdoti, è ricordare a tutti noi che la sequela di Cristo può arrivare anche all’offerta del proprio sangue”.Sandro Magister, Settimo Cielo
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