Colpisce il fatto che il contenuto centrale del libro di Benedetto XVI "L’infanzia di Gesù", in alcuni media sia stato messo in secondo piano dalla questione della presenza o meno nella grotta di Betlemme del bue e dell’asino. Distogliendo l’attenzione dal punto focale dell’opera che, come lo stesso Papa ha sottolineato, non è un atto d’insegnamento pontificio, ma l’espressione della sua ricerca personale e teologica del volto del Signore.
Forse, al di là dell’aspetto aneddotico, la confusione mediatica è un segnale della secolarizzazione e della desertificazione spirituale che Benedetto XVI individua come il problema principale che la Chiesa deve affrontare nel nostro tempo. E uno dei sintomi più dolorosi è l’emarginazione silenziosa e trasversale di Dio dalla vita personale e pubblica.
Lo afferma anche l’arcivescovo e teologo spagnolo Fernando Sebastián nella sua ultima opera "La fe que nos salva", quando assicura che "il problema numero uno della Chiesa di oggi è aiutare la gente a credere". A suo parere, infatti, "ieri l’ateismo era nella mente di alcuni filosofi. Oggi l’ateismo lo abbiamo in casa, nei cugini, nipoti e vicini. L’ateismo ci coinvolge tutti e il vivere come se Dio non esistesse è diventato una sorta di ateismo per omissione". Rimediare a questa situazione e porre nuovamente Dio al centro è ciò che sta facendo Benedetto XVI.
Per il Papa questo impegno è necessario anche nella Chiesa, poiché "la sfida di una mentalità chiusa al trascendente - ha detto il 25 novembre 2011 -obbliga anche gli stessi cristiani a tornare in modo più deciso alla centralità di Dio (…) Perciò non meno urgente è riproporre la questione di Dio anche nello stesso tessuto ecclesiale".
A questo impegno a tornare a Dio Benedetto XVI sta dedicando da oltre un mese le sue catechesi del mercoledì. Come avvenuto in passato nelle lezioni di teologia che il professor Joseph Ratzinger impartiva agli studenti universitari di Tubinga, raccolte più di quarant’anni fa nel volume "Einführung in das Christentum" ("Introduzione al Cristianesimo"), così nell’attuale ciclo di catechesi il Papa ha spiegato che la "fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un 'Tu' che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi" (24 ottobre 2012).
È questa la proposta fondamentale dell’Anno della fede che il Pontefice ha indetto per ravvivare nella Chiesa la gioia di credere attraverso il recupero del primato di Dio, poiché "se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri" (14 novembre 2012). Senza Dio tutto si volge contro l’uomo.
Da parte sua l’uomo, che Benedetto XVI definisce "mendicante di Dio", porta in sé "un misterioso desiderio di Dio" (7 novembre 2012), che non può restare una passione inutile, ma si deve trasformare in un anelito profondo, nutrito dalle gioie autentiche e dal desiderio di pienezza.
Certo, la risposta dell’uomo è essenzialmente risposta a Dio: ma, anche e proprio per questo, è risposta agli altri attraverso l’opera di evangelizzazione, che a sua volta è comunicazione con Dio. "Parlare di Dio -ricorda il Papa - è comunicare, con forza e semplicità, con la parola e con la vita, ciò che è essenziale: il Dio di Gesù Cristo, quel Dio che ci ha mostrato un amore così grande da incarnarsi, morire e risorgere per noi; quel Dio che chiede di seguirlo e lasciarsi trasformare dal suo immenso amore per rinnovare la nostra vita e le nostre relazioni; quel Dio che ci ha donato la Chiesa, per camminare insieme e, attraverso la Parola e i Sacramenti, rinnovare l’intera Città degli uomini, affinché possa diventare Città di Dio". (28 novembre 2012).
Quelle di Benedetto XVI sono catechesi dell’essenziale, per condurre a Dio gli uomini e le donne del nostro tempo.
José María Gil Tamayo, L'Osservatore Romano