Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere l’opera a cui dedicarsi da "pensionato". Il progetto accarezzato per tanti anni, e sempre rinviato, e finalmente preso in mano nel 2003, a 76 anni, quando il tempo del (meritato) riposo sembrava essere prossimo. Poi Papa Wojtyla gli chiese: "Aspetti un altro po’...". E poi, arrivò il 2005, e le cose sono andate come sono andate, e come tutti sanno.
Una premessa breve, questa, ma indispensabile, per dirci, anzi ri-dirci, una volta di più, qualcosa di importante di e su Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, così come egli stesso si firma ancora una volta, nel terzo e ultimo libro su Gesù, pubblicato ieri. Ci dice, in primo luogo della tenacia con cui, dedicando a questa impresa letteralmente ogni ritaglio di tempo all’interno di un’agenda senza pause, abbia voluto e saputo perseguire un’idea che, scriveva nella prefazione al primo dei tre volumi, vedeva come esito e culmine di quel "lungo cammino interiore" iniziato fin dal "tempo della sua giovinezza", per ricucire "lo strappo tra il Gesù storico e il Cristo della fede", iniziato a partire dagli anni Cinquanta. E, dunque, non tanto come momento di sintesi della sua già sterminata produzione accademica, cosa che, in sé, sarebbe stata comunque più che comprensibile, quanto piuttosto come parte imprenscindibile della sua missione di sacerdote e di teologo. Una tenacia, insomma, che è perfetta rappresentazione, testimonianza, di quella dedizione senza riserve che, come Benedetto XVI ha ripetuto in tanti discorsi, specie ai seminaristi, deve essere alla fine il tratto distintivo dell’essere prete.
Insieme a questo, e in collegamento diretto, l’altra cosa che, al di là dei contenuti, il terzo libro su Gesù ci dice, riguarda direttamente il ministero petrino di Benedetto XVI, e il modo straordinariamente moderno in cui lo interpreta. "Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente - scriveva nello stesso testo già citato - che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del volto del Signore.
Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione". Una precisazione non casuale, ribadita in tutti e tre i volumi, dove la cosa forse più straordinaria è l’aperta disponibilità di un Papa (la doppia firma non è casuale, in questo senso) a mettersi e a essere messo in discussione, con il garbato invito a mettere da parte i pregiudizi sulla persona (la sua persona) e a concentrarsi invece sul contenuto della riflessione.
Anche a questo proposito, non si tratta di qualcosa di inedito nella storia di Benedetto XVI. Spesso, dalla sua elezione a vescovo di Roma, e nelle più diverse occasioni, dagli incontri coi sacerdoti a quelli con i rappresentanti di altre religioni, ha voluto sottolineato di parlare "non da Papa", ma da "semplice" uomo di fede. Una distinzione né pedante né retorica, ma il modo concreto di dare veste e forza al suo insistito invito a non rinunciare mai al dialogo ispirato dal desiderio di comprensione reciproca, al suo incessante sforzo di rivolgersi all’intelligenza degli uomini, a prescindere dal credo e dalla cultura. Al suo mettersi costantemente alla pari col proprio interlocutore, mantenendo sempre distinto il livello confessionale da quello secolare. Perché è da questo dialogo, da questo "luogo" in cui fede e ragione possono, alla fine, davvero mettersi in relazione, che si può pensare e sperare di costruire, tutti insieme, il bene dell’uomo.
Salvatore Mazza, Avvenire
Salvatore Mazza, Avvenire